Lettera a un anziano | nel tempo del Coronavirus - Live Sicilia

Lettera a un anziano | nel tempo del Coronavirus

Riscoprire il valore della vicinanza.

Voci dalla comunità
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3 min di lettura

Carissimo Rosario. Cara Lucia

Coloro che sono nati negli anni Settanta e Ottanta riescono ancora a riconoscere il timbro affettuoso di queste parole, anche se il loro suono diventa sempre più flebile. Era l’inizio di una lettera, catena di una corrispondenza che, a volte, proseguiva negli anni. Non voglio fare l’elegia del buon tempo antico, penso che i sentimenti sappiano adeguarsi alle nuove forme di comunicazione e trovare diverse modalità di espressione. I miei amici della Comunità di Sant’Egidio, a Palermo e altrove in Italia, non si sono arresi alla condanna della lontananza, che l’epidemia sembra rendere definitiva, e cercano di usare “cose nuove e cose antiche” (Mt. 13, 52), la vecchia e la nuova tecnologia, per vincere l’isolamento degli uomini e delle donne negli istituti per anziani. Non possono recarsi in visita da loro, come fanno solitamente, ma questo non significa lasciarli soli. E se gli anziani (non tutti, ovviamente) non sanno usare i social network, è possibile riscoprire le lettere che si usavano un tempo, per far sentire loro una vicinanza, una consolazione.

Bastano parole semplici: ti penso, ti sono vicina nella preghiera; presto ci abbracceremo di nuovo. A volte sono lettere più articolate: “in questi giorni così difficili … non ci sentiamo distanti perché il nostro pensiero in tanti momenti della giornata corre verso te e tutti voi”. Oppure, è sufficiente avere un vecchio cellulare, per ricevere una telefonata. Angelina, una donna anziana e forte che andava a trovare tanti anziani in istituto, non ha smesso di telefonare ai suoi amici e alle sue amiche, in questi gironi di separazione. “La Parola cresce con chi la legge”, diceva Gregorio Magno. Si riferiva alle parole delle Scritture, ma è lo stesso per le parole degli uomini e delle donne, che non sono reliquie inanimate, ma organismi​ viventi che crescono nella trasmissione da persona a persona e si nutrono dei sentimenti, delle ragioni e dell’esistenza di ciascuno. È pur vero che, forse, non abbiamo ancora trovato il modo di declinare le parole in modo adeguato alla nuova tecnica che, quasi tutti, crediamo di padroneggiare.

Le parole di una chat o di un post su facebook, per lo più, risentono ancora della velocità richiesta dallo strumento utilizzato. Riusciremo ad accordare i sentimenti allo strumento, ma non è ancora così. Tanti, troppi mi sembra, lasciano che sia lo strumento a trascinarli, strappandogli parole affrettate e senza cura, prive di quella riflessione che si fa carico della comprensione e della reazione dell’altro. La scrittura è una forma della prossimità, o diviene labirinto in cui l’io si perde, credendo di comunicare, mentre ascolta solo un’eco di sé.

Interiorità non è sinonimo di autoreferenzialità. Io non so come saremo quando cesserà l’epidemia di coronavirus, se saremo gli stessi di sempre, o se avremo tratto qualche lezione da tutto questo. So che avremo una speranza di essere migliori se torneremo a riscoprire l’orizzonte dell’altro. Il prossimo non è morto – come ha scritto acutamente un sociologo – ma è nascosto, a volte dietro le mura di un istituto. Basta una lettera per raggiungerlo: “Caro… Cara …”.


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