'Padrebuttitta' tutto attaccato | E noi lo abbiamo amato - Live Sicilia

‘Padrebuttitta’ tutto attaccato | E noi lo abbiamo amato

In ricordo di una luminosa mattina di luglio.

Garofalo all'occhiello
di
4 min di lettura

Carissimo don Silvio,

non è passato molto tempo da quella mattina di luglio. Io quindicenne, tu una ventina d’anni in più; no, non è passato molto tempo. Già allora tu per tutti eri Padrebuttitta, così, un’unica parola, associata in modo conseguenziale con Sant’Agata, la nostra parrocchia. Guardavamo il cielo, il mare, le montagne. Quella mattina tu stesso avanzasti la proposta di salire in cima a Monte Cuccio, conoscevi la strada. C’era da conquistare il secondo monte di Palermo, l’outsider rispetto al più venerato e scontato Monte Pellegrino. Fu tutto un “sì, sì!” di entusiasmo; noi, quella dozzina e passa di ragazzini, e tu, guida alpina improvvisata, non solo spirituale.

“La affrontiamo da San Martino delle Scale”, dicesti, con piglio da stratega; noi calammo la testa, in segno di rispettosa riverenza alla guida. A San Martino c’era un rifugio, un Istituto religioso, che sarebbe servito da base. “Ma dobbiamo partire presto, molto presto, verso le quattro!”; e quando tutti pensavamo di dover sacrificare un pomeriggio alla causa della scalata, tu ci feristi: “…di mattina!”. Sì, c’era da dormire poco, per poi scalare, a piedi, con piccoli zaini e grandi domande di senso, sulle nostre vite, sui nostri destini.

Quando partimmo c’era un buio pesto, oltraggiato solo dalle nostre torce. Tu eri in testa, ovviamente; partì la cordata che qualcuno non aveva ancora finito di fare colazione, pane e melanzane fritte. Alle quattro di mattina.

Ma le primissime luci dell’alba, dopo averci presentato la cima del monte sempre più vicina, ci riservarono una sorpresa clamorosa: raggiungemmo una cima che non era quella giusta, essendo finiti due o tre cime oltre. Eravamo finiti sulla cima della montagna sbagliata. Però c’era un pianoro, con un abbeveratoio dal quale scorreva acqua freschissima. E c’era un’alba meravigliosa; in quel profondissimo silenzio ci mettemmo a pregare.

Caro don Silvio, le nostre domande di senso erano tutte lì, sul bordo di un abbeveratoio, presentate quella mattina e per molte mattine dopo. E la ricerca delle risposte è ancora qui, con noi, non ha cessato di inquietare e scuotere le nostre coscienze e le nostre piccole fedi laiche. Adesso, spiegami, come ti salta in mente di andartene via, così, lasciandoci quelle domande nelle mani, nella mente e nel cuore? Avessimo almeno avuto tempo! Vuoi sapere perché?

Perché oggi un malanno diffusivo e impetuoso ci ha colto di sorpresa e ci sta sconvolgendo oltre misura; ci ha caricato di angoscia, ci sta portando lutti, ci ritrova infragiliti e sprovveduti. Proprio per questo mi rode il fatto che tu non ci sia più. Ti rendi conto? Proprio adesso avremmo voluto che tu fossi con noi, a condividere questi momenti prolungati di paura; proprio adesso ti avremmo chiesto del mistero delle nostre vite appese. Come pochi, davvero pochi anni fa.

Ne sai qualcosa anche tu. Il malanno ti ha portato via nel modo peggiore: nella solitudine e nell’anonimato. Non dico che sia stato trascurato, che non sia stato preso in cura per come si deve, sia chiaro; accanto avrai avuto sicuramente ottimi professionisti, quelli che in questi giorni concitati si stanno prodigando con tutte le energie per affrontare l’impeto virale della malattia. Ma non eravamo noi. Non c’era nessuno dei tuoi amici, i soliti noi. Ci fa impressione pensare che le ultime mani a toccare te, come le tantissime vittime di quest’infezione, siano state le mani, certo premurose e inguantate, di persone che, forse, non ti hanno mai conosciuto.

Carissimo don Silvio, in questi pomeriggi grigi e nuvolosi si canta “azzurro” dal balcone sventolando il tricolore. Ma senza allegria, senza vittorie da celebrare; anzi, con tanta paura. Si canta e si pensa quando si era all’Oratorio, “con tanto sole, tanti anni fa”. Quell’Oratorio ce lo ricordiamo bene, insieme a quei pomeriggi domenicali. Certo, non è che gli anni passati siano stati facili; quando eravamo compagni di pane e panelle non si rideva sempre. Ma adesso ci manca il modo di stemperare tutto, all’angolo della strada, tra via Vespri e via Patricolo. E di continuare a cercare le risposte che cerchiamo da allora, da quella mattina di luglio.

Il fatto è che è passato poco tempo, troppo poco tempo, da quella benedetta, sudatissima, luminosa mattina di luglio.


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