Un quaderno di carta da macero | Diceria dell'untore di Bufalino - Live Sicilia

Un quaderno di carta da macero | Diceria dell’untore di Bufalino

Nel tradimento invisibile di ogni peste, pretendiamo una risurrezione, purché ci porti altrove

INCHIOSTRO DI SICILIA
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Forse tutti i versi si scrivono su carta da macero. I migliori soprattutto, spesso destinati ad una musa indifferente, una carne dell’anima raccolta qua e là, in un bosco o in un porto dall’approdo azzurrissimo e fiacco.

Quando, dopo lunghe riscritture, Gesualdo Bufalino termina la Diceria dell’Untore e, per non appesantire il perfetto corpo del romanzo ne stralcia dei versi, al fine di corredarne i capitoli.

Il progetto compositivo non vede la luce: convergeranno nella raccolta poetica L’amaro miele, successivamente pubblicata.

Tuttavia, Bompiani le pubblica in appendice all’opera, nella stesura originaria.

I primi sono un Biglietto d’ingresso in cui la malattia è già incarnata nel corpo.

E non vedrò più nessuno,/ho i pugni pieni di peste./Addio, bivacchi di festa, accesi sotto la luna.

La malattia ingombra le dita e separa dagli accampamenti dell’esistere, permettendo di raggiungere la sinistra isola di Alcina, in altro mare di tempo.

E resta di tanta vacanza solo una pozza di sole/scordata sulle lenzuola/della mia ultima stanza.

Il silenzio della consapevolezza fermenta la pozza di luce. Il bacillo blu è arrivato nei polmoni del giovane untore.

Torna nello scrittore, trasfigurata in prosa, la memoria secca come di una tosse che con archi ed ottoni intona i suoi diesis più neri.

La malasorte vorace, Bufalino l’aveva conosciuta da giovane in sanatorio. La ridona in un trasfigurato luogo che non perde aromi di carnalità nelle pause di una via crucis di potenza misurata e dolente.

Cade come Cristo nelle Didascalie per una visita medica. La prima volta con sul dorso una nocca, la seconda nel conoscere il ladrone con cui spartire la morte fino all’estremo tracollo sotto la croce in cui lo accoglie l’ululato delle braccia della madre.

Ogni peste semina croci nel cielo, punta con verticalità agonie imprevedibili come quella di Adelmo in Lapide del bambino, quel bambino brutto dalle magre orecchie che svegliava gli ospiti del sanatorio, ogni mattina, con la sua tosse di vecchio.

Diventa troppo tardi per amarlo, per dargli il buongiorno, per fargli un elmo di carta con il giornale, per scherzo, ora che è morto.

E che può fare un morto?/Se gli parlate non risponde;/se gli toccate piano la fronte secca/è come la creta dell’orto.

Rimane di lui quel fiore di sangue che scotta,/lucente e lacero sulla sua bocca.

Nella Diceria dell’untore, dovunque è figurazione di morte, con un presagio che abbraccia l’Eros, senza il vanto dell’immortalità fino alla rivisitazione sublime dell’assenza.

Esistono, è vero, i personaggi: il Mago Dottore, la giovane Marta, una carcassa di dolcezza, il sacerdote infelice che chiede a Dio di mostrarsi, anziché spiarlo dalla sua altera disperazione.

Ma, soprattutto, esiste la rivisitazione sublime dell’assenza nel Miserere scritto sul muro: Più lontano mi sei, più Ti risento/farmiti dentro il cuore/sangue, grido, tumore/e crescermi sul petto. Più sei lontano e più Ti porto addosso,/fra l’abito e la carne,/contrabbando cattivo,/ volpe rubata che mi mangia il petto.

Perché la peste, comunque la si battezzi, ha una comune richiesta: l’isolamento. E il sanatorio diventa il luogo estremo, l’anticamera di un morbo annunziato che si ha il tempo di attendere.

Il morbo obbliga al nascondimento. Suggerisce una fratellanza mai conosciuta, Un mancare che serve all’altro per la sua stessa sopravvivenza. E per la nostra.

Insomma, un’eccezionale riservatezza che annulla duramente la presunzione di ogni immaginata capacità divina.

Dunque è vano, Signore,/ somigliarti nel nome, nella sorte, nella morte…/A noi anche Tu devi una donna/che ci schiodi e ci lavi,/un fantaccino cieco che ci vegli,/una risurrezione.

Quando la morte accende i suoi focolai e nasconde sotto la giacca la lebbra, la solitudine è l’unico riparo contro l’angelo ladro.

Ancora una volta, nel tradimento invisibile di ogni peste, pretendiamo una risurrezione, in qualsiasi forma, purché ci porti altrove, più spesso nell’ordinario vivere.

La chiediamo a quello scabro Cristo chiodato, in un angolo, matto come noi o al Mago dei nuovi sanatori? Abbiamo ancora bisogno che un bacillo si posi sulle nostre labbra, come su quelle del piccolo Adelmo, per far vedere a Dio che siamo buoni?

O possiamo, ogni giorno, con un semplice gesto di minuti talenti, di pensieri meravigliosi e fugaci, di progetti felici e incalcolabili riformulare l’immateriale amore per la vita in cui Bufalino ci guida?


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