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Ai malati dell’azzardo: | “Quello non è un gioco”

Mi rivolgo a padri e figli di famiglie distrutte.

DALI' A QUI
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Si riparte, riprendono gli allenamenti e tra qualche settimana le partite. Non vedo l’ora e non vedono l’ora gli scommettitori, che riprenderanno a puntare e pronosticare e sperare e disperare e poi gioire e poi strappare quel biglietto e dire, sorridenti, “alla prossima”.

Bene! È un bene, perché lo faranno con responsabilità; è un bene perché la “scommessina” non ha mai fatto male a nessuno, può essere anzi un delizioso passatempo. Ed è un bene per tutti coloro che lavorano in questo settore, in primis i piccoli imprenditori che hanno investito su un’agenzia di scommesse e che da due mesi praticamente non vedono un euro.

Male invece. Male per i giocatori d’azzardo. Non che in questi cinquanta giorni siano stati a braccia conserte, anzi le stime dicono che sia aumentato il gioco on line non collegato al calcio; e sappiamo benissimo che quando uno vuol giocare, perché non può farne a meno, non aspetta certo le partite alla domenica. È però evidente che la ripresa del campionato sarà per la ludopatia come una tanica di benzina gettata sul fuoco.

A loro perciò voglio rivolgermi, e voglio farlo con tutta l’umiltà di chi non ha nulla da insegnare (ci mancherebbe), ma vuol soltanto condividere pensieri costruttivi. Mi rivolgo a loro, per lo più padri e figli di famiglie distrutte (o destinate ad esserlo) dal gioco.

Ma quale gioco!

Voi lo chiamate gioco, eppure non lo è per niente. I bambini giocano, voi fate sul serio, voi siete adulti e quando fate quella cosa lì, non vi divertite, non vi divertite affatto. Siete malati e questa non è un’offesa, credetemi, bensì la speranza che ve ne rendiate conto.

Sì, perché il gioco è una malattia, è un morbo malefico che s’attorciglia alle viscere dell’anima, se la prende e se la porta via. Come il diavolo. Sa essere tentatore, come il diavolo. Non fate altro che cedere alle sue lusinghe; suadente e strisciante, il gioco vi strizza l’occhio con una vincita perché ne vogliate altre, perché possiate diventare facili prede dei suoi avidi artigli. Si nutre della vostra noia come una zanzara che ronza di notte, traveste l’incubo di un sogno perfetto, vi strappa a morsi la vita e più lo fa, più agognate d’esser fagocitati. Come una droga mortifera, s’impossessa della vostra dipendenza, della vostra dignità, della vostra esistenza. Vostra e di quella dei vostri cari, depauperati nella tasche e nella gioia di una vita normale.

Questo è il gioco. Una febbre, da cui però si può guarire. Purché se ne acquisisca la consapevolezza, con umiltà.

Già, l’umiltà. Basta quella, per guardarvi allo specchio e comprendere tutto il male che, senza accorgervene, vi fate. E lasciate stare l’orgoglio, non c’è nessuno orgoglio nel misurare la qualità delle vostre giornate in una quota piuttosto che nell’intensità di un abbraccio, nella durata di un dialogo o nella quantità di fatica fatta per portare a casa un risultato (un risultato vero, non quello che inseguite forsennatamente).

Guardatevi allo specchio. Anzi no, guardate negli occhi il vostro bambino: quegli occhi vi parleranno del sacrosanto diritto di avere un padre normale e una vita felice. Guardate negli occhi vostra madre: quegli occhi vi apriranno una finestra sul mondo degli affetti e delle cose più vere, quegli occhi v’imploreranno di fidarvi di lei. Guardate il buio delle innumerevoli vostre notti insonni e scorgerete un futuro sempre più nebuloso; ma se, in una di quelle notti, girandovi e rigirandovi nel letto avviliti, guarderete un po’ più in là, oltre l’orizzonte della vostra coscienza, scorgerete l’alba di un sogno, l’inizio possibile di una nuova vita.

Perché la vostra non è vita. È rincorrere il risultato con penoso affanno e scoprire che puoi anche vincere una tappa, ma nella gara arriverai sempre dietro. È morire dentro per un gol che non doveva esserci … non poteva esserci… un banalissimo gol dell’incolpevole attaccante che diventa il vostro carnefice. È farsi schiacciare dal peso dei pensieri e dei debiti, dal bisogno di procacciarsi altro denaro per tappare un nuovo buco e saziare il vecchio vizio. È perdere tutto. Fiducia, amore, serenità, normalità.

Abbiamo tutti scoperto quanto sia penoso l’isolamento, forse non vi siate mai accorti, cari amici, che questa era già la vostra ordinaria condizione, avevate già il vostro schifoso virus.

Questo è il gioco. No, non chiamiamolo gioco. I bambini giocano, i bambini si divertono. Voi no. Voi siete infetti del peggiore dei virus. Perché il più seducente.

Il mercato del gioco d’azzardo muove milioni e milioni di euro l’anno su tutto il territorio nazionale. Un fenomeno che coinvolge indistintamente ogni fascia della popolazione. Nessuno è immune e non c’è immunità di gregge che tenga. Siete un unico gregge di pecore smarrite, azzannate da lupi luminescenti che vi sbucano da tutte le parti: da uno schermo, da un pc, da un cellulare, da un tavolo, da infernali macchinette rotolanti, da una vetrata dietro cui ululano numeri mentre voi belate alla fortuna.

Una dea cieca e sorda, che supplicate invano. Perché il banco vince sempre.

Il banco vince sempre: quante volte avete sentito questo assioma? Sappiate che lo è, un assioma. Sappiate che non vincerete mai. Sappiate che l’unico gioco in cui è possibile vincere è il gioco della vita, ma non illudetevi perché, anche se ci piace, neppure lì è possibile vincere facile.


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