"Non è più tempo di correnti | Lavorare sodo e in silenzio" - Live Sicilia

“Non è più tempo di correnti | Lavorare sodo e in silenzio”

Il giudice Nicola Aiello

Il giudice Nicola Aiello si dimette da Area

MAGISTRATURA
di
9 min di lettura

Il magistrato di Palermo Nicola Aiello lascia la sua corrente di riferimento in un momento in cui la categoria è attraversata dagli scandali. Ecco come spiega la sua scelta.

“Ho deciso di rassegnare le dimissioni dal gruppo associativo al quale sono iscritto. Lo faccio con un senso di gratitudine e di riconoscenza nei confronti degli appartenenti al medesimo, di tutti i colleghi di ‘Area’ con i quali in questi anni ho condiviso il confronto ideologico e dialettico sui problemi della giurisdizione .

Riconosco il mio limite: avverto la necessità di ragionare su soluzioni concrete ed efficaci per affrontare le disfunzioni del settore giustizia che da anni affliggono il nostro Paese. I casi più eclatanti riguardano alcuni rari episodi delittuosi per i quali risultano indagati alcuni colleghi e non sono certo di mia competenza.

Ma io credo che la Giustizia italiana debba fare fronte a una crisi di valori e di strumenti alla quale porre rimedio. Io amo il mio lavoro e sono consapevole di essere un privilegiato perché ogni mattina, quando entro al Palazzo di Giustizia, sono contento di dare il mio piccolo contributo alla richiesta di giustizia dei cittadini .

La mia scelta di dimissioni dalla corrente alla quale sono stato iscritto da 26 anni nasce dalla mia convinzione che le sedi correntizie, nate col nobile scopo di affrontare i problemi della giurisdizione e di favorire il confronto ideologico tra magistrati, talvolta non abbiano ottenuto questi risultati .

Io non ho ambizioni di carriera: probabilmente non concorrerò mai per un incarico direttivo o semi direttivo, semplicemente perché a me non piace fare il dirigente, ma amo il mio lavoro di magistrato.

E da magistrato e uomo libero (lo sono sempre stato come tanti colleghi ancora iscritti alla Anm e alle correnti) credo fermamente che occorra dare una risposta seria a quel “Popolo Italiano” in nome del quale pronunciamo le nostre sentenze .

Occorre avere il coraggio di abbandonare ogni residua tentazione di autoreferenzialità e protezionismo di categoria e cominciare a pensare alla inderogabile necessità di istituti giuridici che prevedano un efficace sistema sanzionatorio per i casi di mancanza di laboriosità o di inadeguatezza nei quali si gli magistrati possono incorrere.

Occorre conferire ai consigli giudiziari e al Csm maggiori poteri di verifica dell’attività giurisdizionale dei singoli magistrati, valutazioni basate sulla quantità e qualità del nostro lavoro, valutazioni delle capacità organizzative di chi ricopre ruoli direttivi. Valutazioni che tengano conto delle condizioni di lavoro di tantissimi magistrati e delle carenze numeriche e di mezzi dell’apparato istituzionale .

È il momento di spiegare ai cittadini le ragioni della lentezza della giustizia, di spiegare alle Forze dell’ordine le ragioni di certi ritardi nella risposta cautelare e sanzionatoria che talvolta appaiono frustranti per chi rischia la vita a combattere la criminalità organizzata e quella comune .

È il momento di chiederci perché le vittime di alcuni gravi reati debbano attendere anni per avere giustizia e non sempre si fa in tempo a rendere quella stessa giustizia. Io sono profondamente riconoscente alla corrente della quale ho fatto parte.

Sono entrato in magistratura nel 1994, come pubblico ministero, in quella procura in cui si respirava ancora lo spirito di dedizione e di sacrificio di uomini e magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ho iniziato a frequentare le riunioni della corrente denominata “Magistratura democratica” e quelle riunioni talvolta, per esigenze di sicurezza di uno dei magistrati di Md, avevano luogo all’ottavo piano di una delle “torri” di via Del Fante, alla quale accedevamo tra militari armati, filo spianato alle finestre delle scale e sacchi di sabbia, come in trincea, poiché quel collega ogni giorno rischia la vita per il suo spirito di servizio . E quelle riunioni mi hanno consentito di imparare proprio da quell’autorevole collega, che noi magistrati non possiamo consentirci di avere paura, al massimo possiamo preoccuparci.

E così dopo qualche anno fui fiero di quell’insegnamento quando un detenuto mafioso mi disse che ‘mi aveva pensato tanto durante i mesi di detenzione carceraria’ e io ebbi la prontezza di rispondere che avrebbe dovuto continuare a pensarmi poiché in quei mesi non avevo avuto neppure un raffreddore. Io non mi iscrissi a Magistratura Democratica, ma a un’altra corrente che veniva denominata “Movimenti riuniti per la giustizia”.

Dai colleghi di quella corrente ho imparato tanto , così come dai colleghi di “Area” (che ha inglobato MD e Movimenti). Nelle riunioni di Area abbiamo sempre dibattuto del fondamentale ideale del rispetto delle regole, del codice etico dei magistrati e della sacralità del principio di eguaglianza. E in queste riunioni ho avuto l’onore di conoscere magistrati e uomini di eccezionale livello .

Ho conosciuto magistrati come Leonardo Guarnotta, che ha sacrificato parte della sua vita per la giustizia, imponendo a se stesso a ai suoi familiari uno stile di vita estremamente sacrificato per ragioni di sicurezza .

Una volta lo ebbi accanto come Presidente di un Collegio giudicante. Leonardo Guarnotta mi corresse una sentenza facendomi notare l’inopportunità di usare acronimi incomprensibili per i cittadini che avrebbero letto quella sentenza. Ebbene, gli sono grato, poiché ha contribuito a insegnarmi che un giudice deve spiegare chiaramente ai cittadini le ragioni di una condanna o di una assoluzione .

Alle riunioni di Area ho conosciuto magistrati come Leonardo Agueci, che una volta mi regalò un libro che custodisco gelosamente: “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”.

Le parole di Piero Calamandrei le ripasso ogni mattina in camera di consiglio, quando penso che in aula mi aspettano tanti avvocati che non sanno quanto ti dovranno aspettare, tanti testimoni che hanno perso una giornata di lavoro e tanti imputati che sperano di essere giudicati da un giudice giusto.

Da Leonardo Agueci ho imparato a corrispondere il rispetto dovuto, in condizioni di assoluta parità, a pubblici ministeri e avvocati, il dovere di saperli ascoltare, di non sentirmi depositario di certezze e di sapere coltivare il dubbio, nella consapevolezza che non esiste nulla di più innaturale di un uomo chiamato a giudicare le azioni di altri uomini, ma è una necessità e dobbiamo farlo con senso del dovere , lasciando a casa le nostre frustrazioni e tenendo le distanze dalla convinzione di essere espressione di un potere.

Noi magistrati prestiamo un servizio alla collettività, non un potere e dobbiamo esserne consapevoli. Dobbiamo lasciare a casa le nostre frustrazioni, i nostri malumori, le nostre opinioni politiche e le nostre ideologie, poiché ciascun cittadino ha diritto ad essere giudicato da magistrati imparziali e dotati di equilibrio e di umanità. Io non mi vergogno di avere interrotto un interrogatorio per offrire un bicchiere d’acqua a un imputato devastato dalla vicenda che stava vivendo. Non mi vergogno di avere portato una colomba pasquale a due carabinieri che erano stati aggrediti nel corso di una operazione di polizia giudiziaria .

Noi magistrati possiamo essere severi, ma abbiamo il dovere di rispettare sempre la dimensione umana delle persone che giudichiamo. Dobbiamo sapere ascoltare con la stessa attenzione e concentrazione i pubblici ministeri e gli avvocati, anche quando ci sembrano noiose le loro tesi. Dobbiamo comprendere le difficoltà dei magistrati onorari che ci aiutano con grande spirito di sacrificio in assenza di adeguati riconoscimenti retributivi e di prospettive .

Ecco, in Area ho conosciuto magistrati come Guarnotta e Agueci, e come tanti altri, che hanno sempre lavorato con dignità, tanti altri seri servitori dello Stato che indossano la toga con dignità e spirito di servizio, così come fuori da Area ho conosciuto colleghi seri, come Nino Di Matteo, che hanno sacrificato parte della loro vita e dei loro affetto familiari , dedicandosi incessantemente al lavoro e alla ricerca della verità , in un ambiente talvolta indifferente e persino ostile .

La ragione delle mie dimissioni non dipende dalla qualità dei colleghi che ho avuto l’onore di avere accanto in Area, ma dalla convinzione che il sistema associativo e correntizio ha atteso troppo nell’ipotozzare rimedi concreti e efficaci per la crisi della giustizia. Io voglio potere dire ai carabinieri e a tutte le forze di polizia che dobbiamo trovare nuove risorse umane e materiali per accorciare i tempi della risposta cautelare e sanzionatoria di fronte alla criminalità comune e organizzata. Io voglio sforzarmi di capire come potere rendere giustizia in tempi accettabili senza abbassare troppo lo standard qualitativo dei miei provvedimenti. Io voglio potere consentire agli avvocati di celebrare i processi in condizioni dignitose.

E allora forse uno spunto sarebbe quello di prendere atto del fatto che una parte dei processi pendenti ha ad oggetto reati assai datati nel tempo e reati destinati a prescriversi. E allora forse occorre ipotizzare circoscritti provvedimenti di amnistia per reati comunque destinati a rimanere impuniti.

Io vorrei potere dare giustizia alle vittime dei reati e vorrei per questo contribuire a garantire il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Vorrei poter spiegare alle vittime di un omicidio colposo che talvolta una sentenza assolutoria che può apparire ingiusta è il frutto della compresenza di segmenti probatori di segno opposto è del principio “In dubbio pro reo”.

Io mi sto dimettendo da Area pur essendo estremamente grato delle opportunità che la dimensione associativa mi ha offerto. Non dimenticherò mai, a una riunione di Area, gli occhi di di tanti colleghi mentre parlavano di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte assassinati dalla mafia. Non dimenticherò mai la voce rotta di Manfredi Borsellino a una commemorazione organizzata dalla Anm per ricordare Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta .

Mi sono chiesto spesso in questi mesi che cosa avrebbero suggerito di fare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di fronte a questa crisi della giustizia. Ebbene: io credo che ci avrebbero suggerito di tornare nei nostri uffici e lavorare incessantemente in silenzio.

Per questo, e solo per questo, mi dimetto dalla corrente Area. Non parteciperò più a riunioni associative, ma andrò ogni giorno in ufficio per continuare a rendere il mio servizio allo Stato.

Continuerò a fare il mio lavoro nella speranza di limitare quanto più possibile gli errori fisiologici nei quali un giudice può incorrere , poiché non vorrei essere mai come quel giudice di un romanzo di Camilleri che muore te le fiamme dei processi che intendeva rileggere dopo la pensione alla ricerca dei propri errori.

Io vorrei che la riforma della giustizia, ormai indifferibile, tenesse conto della necessità di prevedere un serio sistema di responsabilità per i magistrati che sbagliano, me compreso, se sbaglierò. Il problema non si risolverà sorteggiando i componenti togati del Csm, anzi… . Il problema si risolverà quando chi concorre per un incarico direttivo sentirà io dovere di non chiamare nessuno ma affidarsi solo ai suoi meriti.

Io credo, infine, che non appartenga a noi magistrati il compito di esternare i nostri orientamenti ideologici o politici. Un magistrato non deve farlo, a mio modesto avviso, poiché si deve garantire a ciascun cittadino di essere giudicato da magistrati che non solo siano imparziali, ma che appaiano anche tali non avendo mai esternato opinioni politiche. Per questo da oggi, per dirla con le parole di un cantante che apprezzo: “Voglio stare spento”.

 


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI