L'omicidio di Mario D'Angelo|Acquavite condannato a 30 anni - Live Sicilia

L’omicidio di Mario D’Angelo|Acquavite condannato a 30 anni

Uno dei tronconi ancora aperti del processo Revenge 3, che documenta la follia omicida dei Cappello-Bonaccorsi.
LA RIFORMA DOPO LA CASSAZIONE
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CATANIA – Un processo infinito. Che forse è arrivato al suo epilogo. Vito Acquavite è stato condannato a 30 anni per l’omicidio di Mario D’Angelo, vittima di un agguato mafioso nel 2001. Un delitto che si inserisce nella lunga scia di sangue e vendette che per quasi 8 anni ha funestato la provincia di Catania.

La follia omicida del clan

La follia omicida del clan Cappello-Bonaccorsi ha colpito pistolettate dopo pistolettate boss dei clan rivali ma anche innocenti, che nulla hanno mai avuto da spartire con gli ambienti criminali. L’unica colpa per alcuni, forse, è aver alzato troppo la voce davanti a un sopruso. Ma nella logica inquietante del rispetto mafioso, anche iniziative del genere si possono pagare con la vita. E così è stato per Mario D’Angelo, che avrebbe avuto screzi personali con la famiglia Privitera per “l’assegnazione di un terreno demaniale” nella piana di Catania. Uno sgarro che Sebastiano Lo Giudice, condannato all’ergastolo insieme allo zio Antonio Bonaccorsi per questo delitto, avrebbe “vendicato”.

Il battesimo di fuoco

Quell’assassinio sarebbe stato il “battesimo di fuoco” di Lo Giudice, ha raccontato il cugino Salvuccio Bonaccorsi, diventato pentito da qualche anno. Un esordio – come killer – che addirittura sarebbe stato celebrato “con un brindisi”. Non a caso, molti della sua stessa famiglia “mafiosa” lo hanno definito “un folle”.

La riforma della sentenza

A quell’omicidio avrebbe partecipato anche Vito Acquavite, difeso da Maria Caltabiano, che dopo il secondo rinvio della Cassazione per questo troncone del processo Revenge 3 ha ottenuto la riforma della condanna a 30 anni. La decisione è della Corte d’Assise d’Appello. La Suprema Corte, d’altronde, nelle motivazioni dell’annullamento con rinvio aveva dato precise indicazioni sull’applicazione sanzionatoria da applicare all’imputato. “Il giudice dell’udienza preliminare aveva precisato – scrive la Cassazione – che andava irrogata la pena dei 30 anni per il rito abbreviato se condannati per un solo omicidio. All’esito delle varie scansioni processuali Acquavite risulta condannato solo per l’omicidio di Mario D’Angelo”. Per la Cassazione, dunque, un’anomalia esisteva rispetto alla sentenza di primo grado” che lo aveva condannato all’ergastolo. Vizio che dunque sarebbe stata corretto riformando da ergastolo a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello depositerà comunque le motivazioni. 

Il film dell’orrore

Nelle pagine della sentenza della Cassazione che ha annullato – come detto – solo per la rideterminazione della pena da comminare la posizione di Vito Aquavite si rivive il film dell’orrore di quell’omicidio insensato. “Mario D’Angelo è stato ucciso, a colpi d’arma da fuoco, tra le 20 e le 20:30 del 10 giugno 200, all’uscita dai una strada interpoderale che si mette sulla provinciale Catania-Gela”, è scritto nero su bianco. Tutto è avvenuto “nei pressi dell’azienda agricola familiare” e davanti a un testimone oculare. “All’omicidio ha assistito – continuano i giudici ermellini – da un balcone situato a circa 100 metri dal luogo dell’uccisione, il fratello della vittima, Giovanni, che ha visto un uomo fuoriuscire dal una Y 10 di colore scuro – che aveva bloccato la marcia del veicolo delle vittima e dove vi era altro soggetto – e sparare all’indirizzo del congiunto mentre questi si trovava alla guida delle propria autovettura”. La macchina è diventata la sua tomba.

Anni di silenzio

Sono serviti anni per arrivare ai nomi dei killer. Quando Vincenzo Fiorentino e Gaetano Musumeci, arrestato nel blitz Revenge, hanno deciso di raccontare i segreti della famiglia Cappello-Bonaccorsi e i piani di sangue di Orazio Privitera e Sebastiano Lo Giudice, hanno anche svelato movente e dinamica di quel tragico delitto che ha distrutto un’intera famiglia. Che per anni ha chiesto giustizia.  La Y 10 rubata è finita in mare, tra gli scogli, così come l’arma. Poco dopo sono state le forze dell’ordine a recuperare la macchina rubata vicino al porto di Catania. Ma forse, in quel momento, non avevano immaginato che quell’auto era stata utilizzata da freddi sicari di mafia.

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