Le "ciociare" di Capizzi| Le donne, gli stupri, i silenzi - Live Sicilia Le "ciociare" di Capizzi: le donne, gli stupri, i silenzi

Le “ciociare” di Capizzi| Le donne, gli stupri, i silenzi

Le testimonianze sulle marocchinate di Sicilia sono state raccolte da Marinella Fiume.

Una storia su cui i francesi non hanno fatto, ancora, tutti i conti. Perché le cosiddette “marocchinate” non gravano soltanto sulla coscienza dei goumiers, i soldati irregolari nordafricani al servizio del comando transalpino e che hanno stuprato donne italiane all’indomani dello sbarco del 1943. La responsabilità più alta pesa sicuramente sui vertici militarsi francesi, che concessero loro carta bianca. O meglio: un’infame patente di immunità. Si tratta di una delle pagine più brutali della Seconda guerra mondiale, la cui atrocità non è stata del tutto cauterizzata dalla Ciociara di Alberto Moravia. E neanche dalla trasposizione cinematografica per la regia di Vittorio De Sica. E nemmeno dall’iconica interpretazione di Sofia Loren.    

Marinella Fiume

Rispetto a quei giorni non tutto ancora è stato scritto. Non tutto è stato raccontato. Si tratta del lato oscuro dell’operazione Husky. Nel frattempo però alcune di quelle testimonianze sono andate definitivamente perse, perché parte delle vittime si è già congedata dal questo mondo. Tra loro non solo donne, ma anche giovani ragazzi di allora. Ci ha messo mano una scrittrice dallo stomaco forte e dalla solide coordinate storiche e antropologiche. Marinella Fiume ha curato Le “Ciociare” di Capizzi per i tipi di Iacobelli. Un titolo più che esplicito per una ricerca che esplora da più aspetti una vicenda carica di sangue, omissioni e lacerazioni. 

Capizzi, luglio 1943. Siamo tra i Nebrodi, a 1.100 metri di altitudine. Uno dei centri più isolati della provincia di Messina. Lì vive una comunità di agricoltori, allevatori e pastori, la cui vita è regolata secondo i ritmi dettati dal ciclo del grano. Un ciclo “che neanche la guerra doveva fermare, pena la fame e l’estinzione della comunità intera”. L’arrivo dei goumiers e delle marocchinate spaccheranno per sempre quell’equilibrio fatto di sì arretratezza, ma anche di semplicità. 

Giacomina

La violenza subita da Giocomina dice tutto su quelle terribili giornate. “Alta e slanciata come una Normanna – scrive Marinella Fiume – aveva occhi grandi color del grano maturo, lunghi capelli castani morbidi di seta, vita sottile, fianchi ondeggianti e seni sodi che nessuna pesante flanella riusciva a nascondere. Erano fianchi da cui sarebbero venuti fuori fior di capitini forti e orgogliosi”.  

Cosa le accadde? “Fu il primo giorno dell’arrivo dei soldati marocchini che entrarono in paese sui cavalli o zoccolando a piedi, sollevando il rumore fragoroso delle loro tipiche calzature. Ridevano, e dapprima i paesani pensarono che fossero amici, o offrirono loro il pane, ma subito si accorsero che si erano sbagliati. Non ci fu tempo per nascondersi in una grotta. Bussarono rumorosamente alla porta ma nessuno andò ad aprirla e la famiglia si nascose in tutta fretta dentro dove poté”. 

Abbatterono la porta – continua la testimonianza – scovarono Giacomina, erano allegri e sghignazzavano tra loro, la colpirono con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, la trasportarono di peso a circa trenta metri dalla casa e la violentarono in gruppo mentre la madre continuava a gridare cadendo a terra svenuta e il padre veniva malmenato da altri soldati, trascinato più in là e legato a un albero, mentre un soldato rimaneva di guardia con l’arma puntata aspettando il suo turno insieme con altri…”

Il silenzio

Per tantissimo tempo la comunità di Capizzi ha preferito il silenzio. Ha occultato quelle vicende, quella vergogna. Non parlarne doveva servire quanto un esorcismo collettivo unanimamente accettato. Da quelle violenze sono nati anche dei figli, mentre alcuni stupratori sono stati nell’immediato linciati dai capitini e dati letteralmente in pasto ai porci. La memoria però – per dirla con Primo Levi – “è uno strumento molto strano, uno strumento che può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni”. Così infatti è stato.  

Il lavoro di Marinella Fiume non è strumentale a rinfocolare odio. O a erigere una cortina di ferro verso l’Islam o verso la gente del Magreb. In tal senso, la curatrice mette subito le mani avanti e calibra la sua indagine su direttrici che sono anche etno-antropologiche. Ma anche storiche. 

Il bottino di guerra

Un dato resta evidente e si ripete a ogni guerra. Una dato orribile che non conosce né vincitori e né vinti. Ed è fatto di brutalità e bottini da spartire. Le donne di Capizzi, così come tutte le altre vittime di marocchinate (andando ben oltre le vicende della Seconda guerra mondiale), sono anch’esse parte di quel bottino.  

Una cosificazione che non può non interrogarci. Soprattutto se ad alcuni di quei stupri consumati tra il ’43 e il ’44 hanno preso parte anche i liberatori americani ed europei. L’esito di quegli atti brutali è scritto nella carne delle capitine e di tutte le altre “ciociare” di quella terribile guerra.“Quale fu la sorte delle donne stuprate, nubili o coniugate? Di qualcuna – scrive Fiume – si racconta che fuggì nelle Americhe, di qualche altra che abortì o morì in seguito ad aborti procurati, di altre che caddero nella depressione e nella pazzia”. Altre hanno scelto, invece, la via della rimozione. 


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