Suarez, gli aspiranti italiani e la "colpa" della povertà

Suarez, gli aspiranti italiani e la “colpa” della povertà

Il caso del calciatore rende visibile il mondo di quanti aspettano anni per ottenere la cittadinanza. Con regole che non funzionano.
CITTADINANZA
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L’italianità si acquisisce nel tempo o si compra?
Questo il quesito che emerge dal caso Suarez, dove dalle carte rese finora pubbliche vediamo come i professionisti dell’università chiamata ad accertarne le competenze linguistiche si prodighino per consegnare in tempo record il certificato B1 di conoscenza della lingua italiana al calciatore uruguaiano.

Nelle intercettazioni dei colloqui tra loro i 10 milioni di euro all’anno guadagnati da Suarez diventano un passe-partout che permette di azzerare i tempi, bypassare lo studio e la conoscenza dell’italiano. Insomma di diventare italiano appena lo si richiede. Un trattamento che fa indignare chi per diventare cittadino di questo paese deve aspettare almeno 14 anni, il minimo richiesto dalla legge vigente, e che non si sente per nulla aiutato in questo iter a ostacoli e dal finale incerto.

Un mondo di discriminazione

Eppure in modo del tutto accidentale, il caso di Luis Suarez può essere un’occasione per molti italiani di guardare al di là della finestra scorgendovi per la prima volta un mondo parallelo fatto di discriminazione e ingiustizia: quello di oltre un milione di giovani nati e cresciuti qui, che non sono però cittadini di questo paese.

Amin è un profugo del 1991, a 3 anni e mezzo ha percorso 450 km a piedi insieme al nonno per scappare dalla Somalia e raggiungere poi l’Italia. Oggi ha 33 anni ed è ancora senza cittadinanza. Nella sua situazione si trovano moltissimi altri giovani, minori ma anche ventenni e trentenni. Una parte di loro si mobilita da anni chiedendo che venga cambiata la legge sulla cittadinanza e rivendicando con orgoglio la propria appartenenza a questo paese.

La questione del reddito

“La nostra italianità nessuno ce la può togliere, quello che chiediamo è un riconoscimento istituzionale”, è stato detto al lancio della manifestazione che si terrà a Roma il 3 ottobre per chiedere ancora una volta alla politica di agire portando a compimento una riforma iniziata più volte e mai portata a termine. Quello che pesa maggiormente ai ragazzi sono i tempi – i più lunghi d’Europa – e il requisito reddituale. Facciamo un esempio concreto. Se arrivi in Italia a 3 anni, come Amin, potrai chiedere la cittadinanza solo se risiedi qui per almeno 10 anni senza interruzioni e dimostri di aver guadagnato non meno di 8.263,31 euro all’anno in ognuno dei tre anni prima di chiedere la cittadinanza. Insomma, tutti gli stranieri che sono tanto poveri quanto gli italiani destinatari di Reddito di Cittadinanza non possono chiedere la cittadinanza italiana.

Ma non finisce qui: mentre attendi il responso devi continuare a guadagnare ogni anno quella cifra minima, pena il rigetto della pratica. E quanto dura l’attesa? La legge del 1992 che disciplina questa materia prevede un’attesa minima di 2 anni, che però si protrae quasi sempre. Dal 2018, con il primo dei Decreti Sicurezza che è intervenuto anche sulle cittadinanze, l’attesa minima è di 4 anni, durante i quali rimane ferma la richiesta reddituale di cui sopra. Diventa perciò chiarissima la richiesta di una riforma e l’urgenza di realizzarla.

La “colpa” della povertà

In tempi di incertezze e ristrettezze economiche per tutti, che come sappiamo durano ormai da oltre un decennio, far pagare a questi ragazzi la povertà come una colpa che li tiene lontani da un diritto fondamentale come quello della cittadinanza è non solo cinico ma anche in contrasto con lo spirito democratico ed egualitario della nostra Costituzione, espresso magistralmente nell’articolo 3. La frase più utilizzata da alcuni politici per evitare l’argomento è che questo tema non è una priorità. Eppure rimanendo fermi stiamo calpestando la dignità di oltre un milione di persone che vivono in Italia, amano l’Italia, si sentono italiane. Questo non è urgente per chi?

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