Una ghirlanda lanciata in acqua dal sindaco Totò Martello. Un fiore per quasi quattrocento persone che, era il 3 ottobre del 2013, persero la vita nel mare di Lampedusa. Si parla di 368 vittime sicure e di venti dispersi. I bambini delle scuole elementari provarono a raccontarlo, il naufragio, disegnando sui banchi, secondo la rotta di un cuore dell’infanzia alle prese con la catastrofe. Sono visibili sul web alcuni di quegli schizzi. In quasi tutti c’è una grande barca che campeggia sul foglio. In qualcuno c’è una imbarcazione che soccorre, oppure un salvagente. Le figure in acqua sono stilizzate al minimo, una linea, due braccine, due gambette e una piccola testa ciascuna. C’è la luna con le stelle, con il colore giallo che un po’ deborda. Sono, generalmente, opere ottimiste, perché sembra che tante persone si salvino.
Ci sono le necessarie commemorazioni, più caute in tempi di Covid. Ci sono i comunicati stampa della politica, le note delle segreterie che, sette anni dopo, ricordano, commemorano, celebrano. C’è la pietà minuti dei cuori sensibili. Qualcuno promette che andrà a deporre un altro fiore, sulle persone che sono state sepolte nel cimitero del suo paese. Persone migranti, o ‘migranti’ come vengono chiamati. Ma quante volte, nella nostra stessa pronuncia, la parola ‘migranti’ si è accompagnata all’indifferenza, come se fosse un termine di massa che ha dimenticato gli individui?
C’erano persone in mare a Lampedusa, il 3 ottobre del 2013. Forse, quella ghirlanda che si allontana alla vista, così solitaria e lontana dalla salvezza, è un buon modo per ricordarle. Ci sono i disegni dei bambini. In un disegno qualcuno, un profilo spaurito con il mare immenso intorno, chiama ‘mamma’. Così c’è scritto sul foglio.
