Niceta, cesura fra passato e presente: perché i beni sono stati restituiti

“Cesura fra passato e presente” Così i beni tornano ai Niceta

I passaggi principali del provvedimento della Corte di appello

PALERMO – C’è un prima e un dopo nella scalata imprenditoriale di Mario Niceta, padre di Massimo, Piero e Olimpia che oggi incassano il via libera al dissequestro dei beni anche dalla Corte di appello.

Secondo l’accusa, che non ha retto al vaglio dei giudici, i soldi “sporchi” del padre erano serviti per tutte le successive operazioni imprenditoriali. Sul punto il collegio di appello scrive che: “Gli accertamenti condotti dal Tribunale — in ordine ai quali gli uffici appellanti non hanno fornito elementi che consentano di formulare conclusioni diverse da quelle cui è pervenuto il giudice di prime cure — hanno dimostrato che le società in ordine alle quali vi erano concreti indizi di riconducibilità a soggetti appartenenti a Cosa Nostra dovevano individuarsi unicamente nella Cater Bond srl e nella Parabancaria srl”.

Si trattava di un’impresa di calcestruzzo e di una società immobiliare fallite negli anni Novanta. I pentiti Angelo Siino e Tullio Cannella hanno parlato di “una concreta e fattiva collaborazione di Mario Niceta con alcuni personaggi che, all’epoca, costituivano parte del gotha di cosa nostra palermitana, quali Giuseppe Guttadauro, Angelo Siino, Giuseppe Greco detto scarpuzzedda, Antonino Mangano e i fratelli Graviano”.

Niceta senior avrebbe goduto dell’appoggio dei boss che avevano indicato nella sua impresa la principale fornitrice di calcestruzzo. La Parabancaria, invece, in cui Niceta senior rivestiva soltanto il ruolo di amministratore, era “la società attraverso la quale gli esponenti di cosa nostra investivano capitali illeciti anche nel nord Italia”.

“Al contrario, mancavano e mancano all’esito del presente giudizio – prosegue il collegio di appello – nel corso del quale non è stato fornito alcun ulteriore elemento di valutazione, essendosi limitati gli appellanti a ripercorrere criticamente il materiale probatorio già acquisito in primo grado — indizi che consentano di attribuire a Mario Niceta la qualifica di imprenditore mafioso con riferimento al complesso di tutte le sue iniziative imprenditoriali

A spostare l’attenzione sulle nuove attività imprenditoriali, compresi i negozi di abbigliamento, era stato Angelo Niceta, cugino dei figli di Mario, le cui dichiarazioni sono però definite generiche. Si parla di “mancanza di qualsivoglia riscontro in ordine a eventuali specifici (ed individuati) afllussi o fuoriuscite di capitali di natura sospetta”.

Ed ecco il passaggio decisivo: “Dalla seconda metà degli anni ’90 Mario Niceta non ha proseguito la propria attività imprenditoriale, limitandosi a cedere al figlio Massimo le proprie quote della Olimpia srl”.

Ci fu dunque una cesura con il passato anche perché “si registravano il decesso di Giuseppe Greco (scomparso nel 1985), nonché l’arresto dei fratelli Graviano (fermati nel 1994) e di Nino Mangano (catturato nel 1995), tutti esponenti dell’articolazione di cosa nostra costituita dal mandamento palermitano di Brancaccio. Non a caso, dunque, dei contatti mafiosi di Mario Niceta, restavano a piede libero unicamente i fratelli Guttadauro, tratti in arresto in tempi più recenti (Giuseppe nel 2002, Filippo nel 2006), con i quali Mario Niceta e i suoi figli hanno mantenuto e consolidato rapporti che giungono sino ai primi anni 2000”.

Rimaneva agli atti un episodio: “Non risulta assurgere a elemento costituente concreto indice di pericolosità sociale il singolo episodio del colloquio con Giuseppe Grigoli, esponente mafioso castelvetranese, che Mario Niceta avrebbe incontrato, nel giugno 2007, durante le trattative per l’apertura di due punti vendita della società Nica srl, costituita da Massimo Niceta, all’interno del centro commerciale denominato Belicittà, gestito dallo stesso Grigoli”.

I punti contestati ai figli erano: una conversazione fra Giuseppe
Guttadauro ed il figlio Francesco, in cui si parlava di una richiesta di aiuto da parte di Massimo Niceta a cui erano andati a chiedere il pizzo in occasione dell’apertura del punto vendita di corso Camillo Finocchiaro Aprile; la conversazione nel corso della quale Biagio Cappadonna (fratello di Vito Cappadonna, condannato per associazione mafiosa, favoreggiatore della latitanza di Matteo Messina Denaro e dei fratelli Graviano) informava Filippo Guttadauro di trovarsi presso un negozio del gruppo Niceta; le intercettazioni registrate nel 2006 e nel 2007 e relative all’apertura dei punti vendita presso il centro commerciale Belicittà e quelle sulle presenze della famiglia Guttadauro al matrimonio di Massimo Niceta; un pizzino trovato a Salvatore Lo Piccolo e attribuito a Matteo Messina Denaro in cui c’era scritto “vicenda del mio amico massimo n. ”.

Sul punto La Corte di appello parla di elementi troppo generici per denotare la pericolosità sociale dei Niceta, mentre sul pizzino “non c’è alcuna conferma che si riferisse a Massimo Niceta”.

Infine sugli episodi che chiamano in causa i rapporti con Guttadauro il collegio scrive che “tutti gli episodi sopra citati — se dimostrano in modo palese l’esistenza nei Niceta di un ‘affidamento fiduciario nutrito da questi ultimi nei riguardi dei fratelli Guttadauro e della sussistenza ‘… all’origine del rapporto di reciproca collaborazione intercorso tra gli stessi, di una pregressa interlocuzione progettuale tra Guttadauro Filippo e Niceta Maria’, non consentono di ipotizzare alcuna concreta condotta qualificabile come indice di pericolosità sociale qualificata. Le vicende sopra enucleate non dimostrano, in primo luogo, il reinvestimento finanziario di capitali di illecita provenienza da parte dei Guttadauro nelle imprese commerciali dei Niceta. Ancor meno, l’episodio della richiesta di protezione avanzata da
Massimo Niceta ai Guttadauro lascia trasparire, per le sue modalità di
svolgimento, una cointeressenza economico-finanziaria degli esponenti
mafiosi nell’attività commerciale di Niceta”.

Ad escludere cointeressenze economiche fra i Niceta e i Guttadauro “appare estremamente rilevante il contenuto dell’intercettazione della conversazione intrattenuta da Giuseppe e Francesco Guttadauro nel 2000 poiché in quel frangente il capomafia di Brancaccio raccomandava al figlio di non intervenire direttamente nella vicenda estorsiva (‘lascia stare queste
cose a te… domani gli viene un dolore di stomaco a lui o qualche d’una e
ci sei tu per tramite, perché il tramite tu diventi… hai capito?…’), limitandosi a promettere un successivo intervento, una volta uscito dal
carcere ove si trovava ristretto (‘gli dici, e poi se ne pa… appena esce lui se ne parla, perché se gli dà qualche casa…’, mentre la moglie
completava la frase: ‘non gli fa male…'”.


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