Quel virus chiamato mafia che rimane vivo - Live Sicilia

Quel virus chiamato mafia che rimane vivo

La Sicilia non si può distrarre.
SEMAFORO RUSSO
di
3 min di lettura

Comprendo l’interesse e le relative polemiche sulle vicende dell’Albero di Natale a Palermo, messo su poi cambiato poi risistemato, o sul brutto arredamento da simil giardino inglese di periferia dinanzi a Palazzo d’Orleans, sede della Presidenza della Regione Siciliana. In fondo si deve pur trovare un modo per dirottare il cervello, magari per un attimo di respiro, verso argomenti non riguardanti la terribile pandemia che ci vede coinvolti e terrorizzati ormai da quasi un anno. Al contempo, però, credo che ci siano questioni assai più serie meritevoli della nostra attenzione, anche per evitare il ritorno a stagioni in cui una colpevole indifferenza delle istituzioni e della cosiddetta società civile ha consentito prima del tragico avvento delle stragi lo strapotere sommerso di Cosa Nostra, dei suoi complici in giacca e cravatta e di affaristi senza scrupoli adusi a stare con un piede in due scarpe, di cui una sporca di sangue. Mi riferisco alle recenti operazioni della magistratura e delle forze dell’ordine che hanno disvelato una presenza mafiosa tuttora rilevante in molti territori siciliani, in particolare nella provincia di Trapani senza tralasciare Catania con gli ultimi 18 arrestati dei clan Santapaola e Laudani accusati di associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsione, usura, turbativa d’asta, favoreggiamento personale, detenzione e porto di armi da fuoco. Non che sia una sorpresa ma tornando a Trapani, passando da Palermo, sorgono delle domande. Dov’è Matteo Messina Denaro? Com’è possibile la sua infinita fuga? Speravamo che con Totò Riina e Bernardo Provenzano fossero finite le incredibili e pluridecennali latitanze. Qualcuno sospetta che nemmeno sia più in Sicilia. È certo però, alla luce appunto degli ultimi blitz, che il boss di Castelvetrano pare continui a comandare e a gestire una mafia molto versatile, capace di infiltrarsi agevolmente nell’economia, nell’imprenditoria, nella politica e nelle istituzioni locali.

Leggendo Riccardo Lo Verso si fa il punto sul fatto che alcuni sindaci del trapanese sono attualmente sotto indagine per rapporti con mafiosi conclamati. L’aspetto penale è competenza di procuratori, difensori e giudici e nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva in un eventuale processo, obbligata appare invece una non sottovalutazione dei disinvolti e sciagurati contatti, nella migliore delle ipotesi, tra chi dovrebbe rappresentare la legalità e chi ha commesso azioni indicibili. La sensazione è che gli inquirenti si ritrovino nuovamente ad operare in un contesto siciliano “distratto”, alle prese con settori della vita sociale, politica ed economica dell’Isola ancora troppo inquinabili dai maleodoranti liquami della criminalità organizzata. Abiurare l’antimafia di facciata che ha sollazzato i mafiosi e provocato danni agli onesti non significa abbandonare l’antimafia vera, quella da alimentare nella gente perbene, che deve mantenere la guardia sempre alta. Ha ragione Claudio Fava quando nell’annunciare una prossima missione a Trapani della Commissione regionale antimafia da lui presieduta afferma: “Quanto sta emergendo dall’attività di indagine della magistratura e delle forze dell’ordine nel trapanese, ultima in ordine di tempo la vicenda che riguarda il sindaco di Calatafimi, è elemento di grave e profonda preoccupazione. Se le eventuali responsabilità penali dovranno essere accertate in sede processuale, quello che già adesso traspare chiaramente è un’inquietante familiarità nei rapporti tra amministratori locali ed esponenti delle cosche: un comportamento che mostra una permeabilità delle istituzioni e rafforza il prestigio dei boss mafiosi in un territorio”. Ecco, non dimentichiamo che anche la mafia è un virus maledetto, mortale, con una subdola attitudine alla mimetizzazione e alle necessarie mutazioni per continuare ad agire indisturbata.

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