La normalità eroica di Puglisi e Livatino - Live Sicilia

La normalità eroica di Puglisi e Livatino

Due uomini normali, Puglisi e Livatino, colpiti a morte in odio alla fede e alla normalità divenuta suo malgrado eroicità.
SEMAFORO RUSSO
di
3 min di lettura

La normalità suo malgrado divenuta eroicità ancora una volta beatificata, prima in padre Pino Puglisi, tra poco in Rosario Livatino. Uccisi “in odium fidei”, cioè da sicari motivati dall’odio per la fede, la ragione della beatificazione di don Puglisi, un sacerdote normale lontano dai riflettori; la ragione della imminente beatificazione di Rosario Livatino, un magistrato normale privo di appellativi altisonanti. Sì, perché quando una testimonianza è forte non ha bisogno di un palcoscenico, neppure in terra di mafia. Quanti vescovi, preti e frati hanno tradito la propria missione con inchini blasfemi, celebrazioni in cappelle di fatto sconsacrate da azioni ripugnanti allestite nei covi dei criminali o con la banale vigliaccheria del don Abbondio in corpo lasciando che la Croce santa di Cristo si ritrovasse a braccetto con la lupara dannata di boss e gregari. Ma poi vennero Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco che alzando la voce come Gesù al Tempio hanno spazzato via ogni ambiguità, se sei mafioso non sei cristiano e se non ti penti dinanzi a Dio e alla comunità civile sei scomunicato. E quanti magistrati nel passato tradendo il sacro sebbene laico giuramento di servire la giustizia e la legalità hanno disinvoltamente frequentato i cosiddetti salotti bene delle città siciliane insieme ai capi di Cosa Nostra assecondando l’ipocrita convinzione, in una società collusa, indifferente o spaventata dallo scorrere del sangue: “tanto s’ammazzano tra di loro, non ci importa”. Poi, però, non si sono limitati ad ammazzarsi tra di loro e abbiamo assistito all’assassinio di poliziotti, magistrati, preti, politici, giornalisti, imprenditori. Finché si è aperta la stagione delle stragi, massacri commessi con l’impudica sicumera di chi è abituato a trattare alla pari con lo Stato e lo sfida quando ritiene che non stia rispettando il patto scellerato del quieto vivere di un tempo. Erano arrivati Terranova, Costa, Chinnici, Falcone, Borsellino, loro, spesso nella solitudine creata intorno dai piani alti, avevano decretato la fine delle convivenze salottiere, dello sciagurato vizio della borghesia sicula di fingere di non sapere, di non capire, di concludere affari con tagliagole, estorsori ed esattori del pizzo con complici ovunque infiltrati mantenendo, ingannando e ingannandosi, una formale irreprensibile reputazione secondo il consolidato principio che il denaro non ha odore. “In odium fidei”, uccisi dalla mafia in odio alla fede e forse a una normalità disarmante e, quindi, pericolosa.

Qualcuno si è meravigliato, va bene padre Puglisi, era un sacerdote, ma Livatino? Il segno della non comprensione di quanto la normalità, nella fede autentica di un laico, possa costituire una rivoluzione vivente da impaurire financo le cosche mafiose. Il giovane magistrato trucidato il 21 settembre 1990 era assai devoto, per lui credere significava innanzitutto essere credibili e svolgere la funzione giurisdizionale con rettitudine, equilibrio, dedizione, sobrietà. L’hanno ammazzato perché in aggiunta a tali qualità professionali era anche un fedele senza le finzioni di una religiosità unicamente esteriore, animato dall’amore genuino per il Vangelo, dalla partecipazione assidua ai sacramenti. Non solo un magistrato tutto d’un pezzo pertanto, pure un vero cristiano. No, ciò agli occhi dei capifamiglia con la coppola in testa e le mani nella finanza, nella politica, nella Chiesa e nell’economia dei crocifissi appesi soltanto alle pareti, al collo o al petto appariva insopportabile, inaccettabile. Allora lo hanno inseguito, ferito, freddato vilmente. Due uomini normali, Puglisi e Livatino, colpiti a morte in odio alla fede e alla normalità divenuta suo malgrado eroicità. Martiri. Beati, verso quella santità che interpella credenti e non credenti.


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