"L'inaugurazione" di Rosso di San Secondo: un rito di accuse - Live Sicilia

“L’inaugurazione” di Rosso di San Secondo: un rito di accuse

Lo scrittore siciliano è una monade disabitata, con l’anima dispiegata verso una tenerezza disperata o verso un cinismo irrimediabile.
INCHIOSTRO DI SICILIA
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Di grande stile drammatico è il monologo di Rosso di San Secondo in cui convergono i più sottili temi della scrittura, centrata sulla doppia vita che uno scrittore coltiva nelle stanze in cui prende corpo la parola.

Nell’opera “L’inaugurazione”, unico personaggio è la moglie di un letterato, testimone della sua esperienza creativa, che, appena uscita da una casa di cura, a tre anni dalla morte del marito, si presenta all’inaugurazione del suo busto di marmo, appena collocato in sua memoria. A luci spente, quando già sul capo dell’uomo amato è stata posta la corona d’alloro.

Il procedere della narrazione, tumultuosa e senza infingimenti, da vita alla verità di un estremo commiato a lame affilate: un’ultima festa funebre.

Un rito di accuse si snoda da un capoverso all’altro in cui, prima fra tutte, emerge quella di averla condotta in uno stato mentale delirante.

Lo scrittore che aveva stimato la donna per la sua intelligenza tanto da giurarle amore, era stata presto coinvolta nel doppio inumano della sua arte dove le persone diventano personaggi. Poiché l’arte ricrea forme più autentiche della vita stessa – scrive Rosso di San Secondo – ella si era trovata nel feroce inganno di non condurre un’esistenza completa e intera, ma di entrare nel gioco sottile che esiste fra il vivere e lo scrivere.

Vent’anni vicino a te, ma quale donna avrebbe potuto mai sopravvivere!” – ella dice, perché dell’anima del marito e dell’artista conosceva ogni trappola.

Il cinismo sordo con cui guardava gli altri, le manipolazioni che era capace di mettere in atto, perfino quella di sedurre la sua migliore amica per poi narrare la loro passione conferendole il ruolo di personaggio in un romanzo. Insomma, un uomo capace di ogni tradimento e di ogni infamia pur di raggiungere il suo unico scopo, ossia di trasformare in narrazione l’esistere.

Storie raccolte qua e là, perfino rubate alla buona fede degli avventori, sottratte agli altri con una furbizia senza scampo. Drammi di cui lo scrittore rideva prendendone le distanze per ridurle a materia letteraria.

Il marito le aveva consigliato di prendere la vita con leggerezza, di guardarla dall’alto, ma ella non aveva saputo farlo e vi si era trovata in mezzo in uno sconforto disperato. Incapace di scrivere non poteva fare a meno di prendere sul serio l’esistere perché, come tutti, viveva per vivere e non per scrivere.

Eppure, a distanza di tempo, torna simbolicamente da lui, dalla sua faccia di bronzo, divenuta immortale sul cui capo è stato posto anche un alloro, proprio da coloro che aveva deriso. Vi ritorna avendo scampato il manicomio. Con evidente rimpianto.

Dal marito, quale palombaro dell’esistenza, aveva appreso la genesi della scrittura rimanendo, tuttavia, in un ruolo marginale della storia dell’arte, certa di non essere mai ricordata da nessuno nonostante gli avesse dedicato ogni cura.

Adesso, guarita dalla passione, proprio a causa della guarigione stessa, sente la vertigine del vuoto. Pur certa di essere stata la donna più seriamente amata dallo scrittore e di essere stata da lui considerata una specie di cagna esperta di un cacciatore di casi umani, una complice intellettuale, di questo ruolo ella sente la mancanza e comprende che la morte che ha consacrato l’immortalità dello scrittore segna la sconfitta della sua solitudine.

La vedova sembra dunque incarnare la perfetta trascrizione di una visione idealistica del reale che il drammaturgo aveva già resa esplicita.

L’arte scioglie l’equivoco in cui l’abitudine fa cadere la maggioranza degli uomini i quali si illudono di possedere tante certezze quante ne toccano con mano… Basterebbe che riflettessero per accorgersi, come al contrario, la realtà più concreta non è quella che ci inganna con la sua materialità, bensì l’altra che filtrata dalla nostra essenza sensibile, si coordina in progetti, idee e immagini.

Taluno ha anche attribuito tale monologo all’infelice storia coniugale di Luigi Pirandello, ma questo, credo, non abbia alcuna importanza.

C’è, invece, in questo dramma il doppio fondo della letteratura siciliana: la realtà esistenziale dello scrittore che, attraverso la ricerca della parola, conduce se stesso o altri alla rovina. Sembra la scelta di privarsi di una vita ordinaria ma che, in verità, altro non è che invadere il retroterra culturale dell’isola e abitarlo.

Lo scrittore siciliano è una monade disabitata, con l’anima dispiegata verso una tenerezza disperata o verso un cinismo irrimediabile. La sua condanna è vivere la vera vita che, in fondo, manipola e disprezza ma di cui non può e non sa liberarsi. In questo punto dolente nasce la sua arte che è quasi sempre non vita, amore purissimo e corrotto, continua nostalgia del futuro che chiama memoria.

A fine lettura, comincio a credere che, forse, in quell’immortalità di marmo, un artista siciliano comincia veramente a vivere, libero da se stesso e dagli altri.

L’INAUGURAZIONE

di Pier Maria Rosso di San Secondo

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