'Schiticchi' di mafia, i boss a tavola: dalle aragoste alla salsiccia

Schiticchi di mafia, boss a tavola: aragoste, salsiccia e tradimenti

I boss non rinunciano alla tradizionale 'mangiata', ma cambiano le abitudini. Da Totò Riina a Francesco Palumeri

PALERMO – I boss si incontrano, discutono di affari, decidono le strategie. Meglio se c’è qualcosa da mettere sotto i denti, però. È sempre stato così e lo è ancora oggi.

Quando ammazzarono Giovanni Falcone brindarono con lo champagne. A capotavola c’era Totò Riina. Felice come non mai, ma da lì a poco avrebbe smesso di banchettare.

C’è stato un tempo in cui anche Bernardo Provenzano, costretto a pane e cicoria nell’ultima parte della latitanza, amava le tavole imbandite.
“Me lo ricordo ancora all’inizio degli anni Ottanta quando facemmo una grande mangiata di pesce al Gambero rosso di Mondello. C’era tutto il gotha della mafia”, raccontò Giuseppe Calderone.

Erano gli anni in cui boss rifiutavano il cibo dell’Ucciardone, che per loro non era un carcere, ma un Grand Hotel. E come nel migliore degli alberghi ordinavano casse di aragoste e Dom Perignon.

Oggi i nuovi boss si accontentano di una grigliata in garage, sotto un ombrellone da spiaggia. Anche questo è il segno dei tempi, di una mafia messa alle corde pur mantenendo una forte capacità di controllo del territorio.

Nel 2011 Giulio Caporrimo, potente capomafia di San Lorenzo, a cui piaceva esagerare, organizzò un sontuoso pranzo a Villa Pensabene, un maneggio alle spalle del velodromo allo Zen. Decine di invitati, tutti mafiosi. Una grande abbuffata prima di discutere di affari.

Al tavolo c’erano pure Giuseppe Calascibetta, capo mandamento di Santa Maria di Gesù, e il Giuda che poco dopo lo avrebbe ucciso o fatto ammazzare. Anche in questo la mafia è rimasta fedele alla trazione, fatta di mangiate e tradimenti.

Nel 1982 quella che doveva essere una mangiata divenne fu una carneficina. Non bastò neppure l’acido che i corleonesi si erano portati dietro per sciogliere i corpi del boss di Partanna Mondello, don Saro Riccobono, e dei suoi fidati galoppini Salvatore Micalizzi, Vincenzo Cannella e Carlo Savoca.

Faceva freddo. Freddissima era l’acqua del torrente che scorreva di fianco alla villa della riunione, in contrada Dammusi, nelle campagne di San Giuseppe Jato. La bassa temperature rallentò l’azione corrosiva dell’acido. Che era poco, anche perché si aggiunse l’incombenza di sbarazzarsi di un altro cadavere, quello di Salvatore Scaglione, boss della Noce, trasportato a San Giuseppe Jato dopo essere stato attirato in trappola a Palermo dai Ganci. Ne uccisero quattordici in un solo giorno. Totò Riina era sempre più il signore della città e dell’intera Cosa nostra.

Giulio Caporrimo pochi mesi fa, prima di essere di nuovo arrestato, ricordava con nostalgia la “mangiata nel villino di Salvatore Lo Piccolo”.

Lo Piccolo, il barone di San Lorenzo oggi all’ergastolo, nel 2006 organizzò un “schiticchio” nelle campagne di Giardinello. Nino Pipitone, oggi pentito, fu incaricato di accompagnare in macchina Lino Spatola: “Era tranquillo perché non si poteva mai aspettare una cosa del genere ed era sceso da casa con vino, whisky e coniglio cucinato dalla moglie”.

Lo ammazzarono e misero il corpo dentro il portabagagli di “un macchina posteggiata e loro hanno preparato da mangiare. Le solite cose…”.

Alessandro D’Ambrogio, boss di Porta Nuova, pure lui di una generazione più recente, amava la vecchia tradizione dello schiticchio. Prima si mangiava e poi si parlava al ristorante “Il Bucatino” a due passi da via Libertà. Non era l’unico locale frequentato dai mafiosi di buona forchetta. Le richieste di pizzo e le nuove affiliazioni venivano decise davanti a un piatto di spaghetti con le cozze e una grigliata di pesce.

“… domani… ce ne saranno che ci devono restare male… ce ne saranno scontenti”, diceva l’anziano boss Salvatore Profeta di Santa Maria di Gesù il 9 settembre 2015 alla vigilia del summit in cui furono ratificate le cariche del mandamento in una sala ricevimenti.

Quando nel 2018 i capimafia di quattro mandamenti palermitani riunirono la cupola, seppure a ranghi ridotti, si accontentarono di poco. Al primo piano della palazzina del rione Baida “c’era un tavolo imbandito con dei dolci… ho trovato Mineo seduto, Greco Michele, che era già a tavola, Di Giovanni… dopo una mezzoretta è venuto Lo Piccolo Calogero”. Le parole sono del boss di Villabate Francesco Colletti, poi divenuto collaboratore di giustizia.

L’elenco potrebbe proseguire. Cambiano i commensali, lo spessore criminale e lo stile, ma la tradizione della mangiata va difesa. Francesco Palumeri, finto in carcere pochi giorni fa con l’accusa di essere il capomafia di San Lorenzo – un ruolo ‘soffiato’ a Caporrinmo – si è dovuto accontentare di una grigliata piazzata davanti a un garage. Carne e salsiccia.


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