"Così muoiono le imprese confiscate": l'atto d'accusa dell'Antimafia

‘Così muoiono le ditte confiscate’: l’atto d’accusa dell’Antimafia

Il sistema non funziona e nel peggiore dei casi i mafiosi si riappropriano dei beni

PALERMOLa stragrande maggioranza delle imprese confiscate alla mafia finisce in malora. Centinaia di posti di lavoro bruciati. Beni abbandonati, vandalizzati o addirittura dimenticati con il paradosso che restano occupati dalle persone a cui sono stati sottratti (mafiosi inclusi). Colpa di un sistema che non funziona e della cattiva gestione, a volte penalmente perseguibile, degli amministratori giudiziari, ma anche delle lacune dell’Agenzia per i beni confiscati.

La Commissione regionale antimafia ha concluso un’inchiesta durata otto mesi che ha il merito di mettere fatti già noti, uno dietro l’altro, di averli sviscerati con decine di audizioni, offrendo uno sguardo d’insieme e soprattutto di avanzare delle proposte per modificare una legge che va rivista. La Rognoni-La Torre resta una pietra miliare nelle misure di prevenzione, ma le cose sono cambiate. Il Codice antimafia va ripensato perché dice Fava “alle buone norme è seguita una pessima pratica”.

La fase repressiva ha funzionato, quella gestionale che è stata un fallimento. Il risultato è che aziende e beni sono andati perduti. Lo Stato si ritrova in mano un patrimonio improduttivo. Stessa cosa gli imprenditori ai quali i beni, al termine di processi troppo lunghi, sono stati restituiti dopo il dissequestro.

Nella relazione conclusiva, approvata all’unanimità, i commissari guidati dall’onorevole Claudio Fava, che oggi l’ha presentata assieme all’onorevole Roberta Schillaci del Movimento 5 Stelle, scrivono che si è finito per accettare “con una sorta di fatalistica rassegnazione che la fase propositiva e propulsiva della legge, ovvero la restituzione di quei beni al Paese come ricchezza sociale collettiva, finisse travolta nell’improvvisazione delle istituzioni e nella farraginosità della burocrazia”.

I numeri

Al 31 dicembre 2019 l’intero patrimonio immobiliare in gestione all’Agenzia per i beni confiscati era di 16.473 unità, di cui il 34,46% in Sicilia. Oltre il 65% del totale (in Sicilia sono 5.677) è composto da beni passati al patrimonio dello Stato, dunque sulla carta riutilizzabile. Le aziende in mano agli amministratori giudiziari dell’Agenzia sono 2.587 a livello nazionale (il 30% in Sicilia). Solo 654 imprese sono attive (poco più del 25%), mentre le altre risultano inattive, cancellate, in fase di liquidazione (sono 1.338).
In Sicilia su 780 aziende in gestione, solo 39 sono attive. Su 459 assegnate, solamente 11 si sono salvate dalla liquidazione.

L’ombra di Antonello Montante

Nel 2014 Antonello Montante, potente presidente di Sicindustria e referente nazionale per la legalità di Confindustria, viene nominato componente del Consiglio direttivo dell’Agenzia. Nelle intenzioni dell’allora ministro dell’interno Angelino Alfano c’era l’apertura a una gestione manageriale dei beni. “C’era un solo problema: Montante, appunto”, si legge nella relazione. Montante era già indagato dai sei mesi dalla Procura di Caltanissetta per concorso esterno in associazione mafiosa (l’inchiesta è ancora in corso mentre Montante è stato condannato in primo grado per la rete di spionaggio che avrebbe organizzato anche per sapere a che punto fosse l’indagine). La notizia non era ancora ufficiale, ma girava parecchio. Sarà un articolo di Repubblica a svelare venti giorni dopo la nomina che Montante era indagato.

“Eppure nessuna informazione sull’indagine penale a carico della persona prescelta arriva né al presidente del Consiglio, cui compete la nomina, né ai ministri dell’Interno e dell’Economia, cui compete l’indicazione – si legge nella relazione -. Cosa ha determinato un così paradossale corto circuito informativo, consentendo la nomina ad una carica di così alta responsabilità nel contesto della lotta alla mafia proprio d’una persona che da molti mesi era indagata per concorso esterno in associazione mafiosa?”.

”Qualcuno avrebbe dovuto dirmelo, avrebbe dovuto dirlo al presidente del Consiglio, avrebbe dovuto dirlo al Ministro dell’economia. Noi avremmo dovuto saperlo. Ma la legge lo impedisce. E se qualcuno ce l’avesse detto, avrebbe commesso un reato penale”, ha detto Alfano in audizione all’Antimafia.

Sta di fatto che Montante si auto sospende a febbraio e si dimette a luglio. Nessuno lo ha revocato prima. Sulla scelta di Montante per quell’incarico la Commissione lascia agli atti alcuni interrogativi: “Quella nomina fu solo casualità, il mero risultato di una somma di sviste istituzionali? E per Montante, entrare nel direttivo dell’Agenzia era davvero solo un’altra medaglia da appendersi al petto, peraltro già sovraccarico di titoli, prebende ed encomi? In altri termini: c’è stato attraverso Montante il tentativo di dar la scalata all’Agenzia, alle possibilità di speculazione privata che avrebbe potuto offrire la gestione della più grande holding italiana, proprietaria di quattromila aziende e di decine di migliaia di beni immobili?”.

Anche perché “affidare o vendere immobili e aziende ai privati, è il contrario dello spirito della legge che immagina, per quei beni, una restituzione alla collettività come ricchezza sociale, fruizione collettiva, usi pubblici”. Forse quell’idea di “far shopping delle aziende confiscate” non era poi così campata in aria, se è vero che Montante – ai tempi della sua proposta di riforma dell’Agenzia – si era già da tempo attrezzato. Come? Costituendo presso uno studio notarile di Caltanissetta il 20 settembre 2010 la ‘Tavolo per lo Sviluppo del Centro Sicilia’, un’associazione che nello Statuto annovera tra i propri scopi sociali, pensate un po’, quello di ‘gestire i beni confiscati’”.

Il caso Saguto

Nel 2015 esplode il caso di Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo condannata in primo grado per corruzione e radiata dalla magistratura. Viene fuori lo scandalo della gestione dei beni e il metodo clientelare della nomina degli amministratori (anche se Saguto sul punto si è sempre difesa sostenendo di avere nominato centinaia di amministratori, altro che concentrazione di incarichi in poche mani).

Nel corso del processo di Caltanissetta Saguto ha difeso il metodo di scelta: “Tutti noi giudici avevamo una scatoletta, dove c’erano tutti i bigliettini dei vari amministratori, che si proponevano o che venivano proposti. Io li ho ritrovati (…) Su ogni bigliettino, per quasi tutti c’è scritto chi me li ha segnalati, perché venire e dire io vorrei fare misure di prevenzione da parte di un dottore o un avvocato, evidentemente non può bastare, neanche il curriculum può bastare. Mi è stato chiesto da un giornalista: ‘Ma non ci poteva essere un criterio più oggettivo?’, dico, ‘se lei lo trova me lo suggerisca, perché lo cerchiamo tutti. Io credo che tutti noi nominiamo periti, consulenti o quant’altro, li nominiamo sulla base della fiducia, non certo sulla base di un elenco…”.

La commissione Antimafia guarda avanti, si chiede se quel metodo permanga ancora e soprattutto quali siano gli attuali metodi attraverso cui si valuta il lavoro dei professionisti incaricati. Un argine è stato messo ad alcune “derive”, specie sul pagamento delle parcelle. Emblematico il caso dei 120 milioni chiesti dai commissari nominati per la gestione di Italgas. Alla fine la nuova sezione Misure di prevenzione di Palermo, presieduta da Raffale Malizia, ha liquidato 230 mila euro ciascuno. Così come sono stati messi dei paletti ai cumuli di incarichi dovuti ai cosiddetti sequestri a casata. Un tema sollevato da Pietro Cavallotti uno degli imprenditori a cui i beni sono stati restituiti ormai vuoti e inutilizzabili.

Gli amministratori vengono scelti da un albo nazionale, che secondo i commissari, “non costituisce uno strumento sufficiente ai fini di una corretta individuazione delle reali competenze del professionista al quale si intende conferire l’incarico”. Tanto che per stessa ammissione dei giudici si va avanti con “il passaparola”. Il tema della specializzazione di coloro che vengono chiamati a gestire i beni resta centrale. Servono corsi di alta preparazione.

I costi della legalità

Le aziende, però, non falliscono solo per l’incapacità degli amministratori. Ci sono anche, e forse soprattutto, i “costi della legalità, ovvero l’insieme dei fattori finanziari e di mercato che un’azienda confiscata (come qualsiasi altra azienda che si muova sul mercato pubblico e privato senza scorciatoie, forzature o privilegi) deve saper affrontare”.

Ed ecco la nota dolente. Nelle camere di consiglio si emettono i verdetti di sequestro e confisca, ma non si traccia il percorso necessario per salvaguardare l’azienda. “L’Agenzia non partecipa mai a questo primo determinante momento istruttorio sul destino delle aziende e le imprese si trovano catapultate in un mercato tra mille difficoltà”, si legge nella relazione.

La prima difficoltà è l’impossibilità di accedere al credito bancario. Un esempio pratico è quello di Geotrans, un’azienda di trasporto su gomma confiscata definitivamente alla mafia catanese. Siccome l’azienda è andata in confisca è stata bollata come “azienda non meritevole di affidamento”.
Un paradosso, insomma. (leggi il focus su Catania e i beni occupati)

“Lo Stato sequestra un’azienda alla mafia e il circuito bancario – che riteneva quell’azienda, fino a quando apparteneva a Cosa nostra, affidabile e solvibile – non si fida più. Un pregiudizio difficile da comprendere e da accettare, soprattutto se pensiamo che il recupero di un bene tolto ai mafiosi dovrebbe essere una sfida per tutta la società, sistema creditizio incluso, e non solo un problema dell’amministratore giudiziario”. Senza contare che la mafia fa terra bruciata attorno alle aziende, addirittura creandone altre ad hoc che si accaparrano i clienti.

Le proposte legislative

Fin qui il quadro devastante e devastato che viene fuori. C’è poi la fase propositiva. Il limite dei tre incarichi per ogni singolo amministratore deve “ricomprende anche i sequestri preventivi disposti dal giudice delle indagini preliminari”. Laddove servono di più amministratori giudiziari “va previsto espressamente che questi debbano avere profili professionali diversi, ciò allo scopo di favorire un approccio multidisciplinare nella gestione dell’impresa sottoposto a misura”.

Bisogna allargare la platea degli amministratori, non più solo avvocati e commercialisti, ma anche figure professionali che conoscono le dinamiche aziendali. La commissione propone di “prevedere un rating per gli iscritti all’albo, attraverso una valutazione (positiva o negativa) al completamento dell’incarico”.

Va anche previsto un albo dei coadiutori degli amministratori giudiziari e si devono fornire gli strumenti necessari affinché l’Agenzia svolga davvero il suo ruolo. Organizzare dei tavoli provinciali, rendendoli obbligatori e permanenti e non facoltativi, che monitorino la vita delle aziende.

Secondo i commissari, serve un percorso virtuoso da parte degli enti locali per il riutilizzo dei beni che preveda controlli e sanzioni per gli enti che non utilizzano i beni assegnati.

Enti locali a cui però va data una mano seria con fondi pubblici, ampliando i fondi già esistenti, per la ristrutturazione dei beni. Ed infine, “prevedere specifiche forme di ristoro, al di là delle azioni di responsabilità esercitabili nei confronti degli amministratori giudiziari, per chi subisce un depauperamento del proprio patrimonio aziendale (nei casi, ovviamente, di misura revocata)”.

Insomma, il sistema va riformato nel profondo. La Commissione metterà per iscritto le sue proposte e le spedirà al Parlamento nazionale. Fava, però, non è ottimista perché, dice, “non c’è la volontà politica, ci piacerebbe sapere cosa ne pensa Draghi”. Fava non ha dubbi: “Il caso Saguto è stata un’occasione perduta e la riforma pensata è servita a mettere la polvere sotto il tappeto”. Per la deputata Schillaci è stata un’occasione mancata anche per guardare cosa accade in altre sezione del Tribunale. Come dire: non ci sono le Misure di prevenzione.

Una cosa andava assolutamente evitata, ma purtroppo è già accaduta. L’Agenzia ha pubblicato un bando per l’assegnazione di beni confiscati, ma non sapeva che erano ancora in mano ai mafiosi. “Uno schiaffo alla dignità”, conclude Fava.

“Una relazione finale che evidenzia il rischio di un clamoroso fallimento da parte dello Stato. Serve rapidamente un cambio di rotta. Per questo stiamo predisponendo una proposta di legge che aiuti a riorganizzare la filiera, imponendo l’applicazione di procedure che impediscano ai mafiosi di continuare a detenere un immobile sequestrato ed obbligando i comuni ad un ruolo più responsabile”, aggiunge Nicola D’Agostino
componente della commissione e Capogruppo di Italia Viva all’Ars.


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