"Abbiamo sbagliato a creare il mito dell'infallibilità dei giudici" - Live Sicilia

“Abbiamo sbagliato a creare il mito dell’infallibilità dei giudici”

Il presidente dell'Antimafia Fava: "Tenace presenza di interessi privati in ambito pubblico". Il caso della commissione Angelini "asfaltata"
L'INTERVISTA
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Sono stati giorni caldi di polemica attorno al lavoro della commissione Antimafia dell’Ars. La nota molto dura del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari ha fatto seguito a un intervento altrettanto critico del giurista Costantino Visconti, sempre sul tema dei beni confiscati. Il primo, insieme ad altri due docenti, ha criticato un passaggio della relazione che gettava ombre su dei corsi organizzati dall’Ateneo rimproverando a Fava e agli altri commissari di non avere approfondito il tema con l’Università. Il secondo ha definito “propaganda” le relazioni della commissione, più simili a “sceneggiature” che a vere e proprie analisi dei fenomeni. Non è la prima volta che una relazione della commissione presieduta da Claudio Fava scatena strascichi polemici. Era già successo per l’indagine sull’attentato a Giuseppe Antoci (quando i commissari misero in discussione l’operato degli inquirenti sulla base di quelle che il gip poi definì “pure elucubrazioni mentali”) e anche per quella sullo scioglimento per mafia di alcuni comuni (con strascico di querele).

A Livesicilia Fava risponde alle critiche, richiama l’attenzione sulla vicenda della commiasione guidata da Aurelio Angelini che rischia di essere impallinata all’Ars e allarga il ragionamento all’antimafia in sé. Con un mea culpa tutt’altro che scontato, che riguarda l’atteggiamento che l’antimafia ha assunto negli anni verso la magistratura, oggi travolta dallo scandalo Palamara che ha svelato le trame delle correnti delle toghe. E chissà che le sue frasi non possano finalmente aprire un dibattito e un esame di coscienza nell’antimafia storica sugli errori, commessi a quel tempo spesso in buona fede, che spalancarono le porte alla successiva trasformazione in “circo” di un movimento nato con le migliori e più nobili ragioni.

Onorevole Claudio Fava, vi state attirando poche simpatie con queste inchieste.

“Sull’ultima relazione in particolare, questa sui beni confiscati, abbiamo ricevuto una quantità imbarazzante di commenti positivi, da magistrati ad amministratori giudiziari ad associazioni del terzo settore. Tutti riconoscono che questo è un primo lavoro compiuto che non solo individua i vulnus ma propone le soluzioni normative. L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente universitario e dal rettore dell’università  di Palermo. Dell’intervento del rettore resta solo l’estremo sgarbo delle sue parole. In quelle di Visconti si riconoscono invece i tratti di una borghesia intellettuale furba e accidiosa. Per cui ‘avversario’ non è chi ha consentito in questi anni dai banchi dei governi il quotidiano tracimare di interessi privati nel condizionare la spesa pubblica, esempio tra tutti quello dei rifiuti; avversario è semmai una commissione Antimafia che questa vischiosità di interessi la analizza e la denunzia. Si resta in silenzio davanti al saccheggio perpetrato da certa politica e si alza la voce contro chi questo saccheggio prova a denunciarlo. Significativo”.

Senta, l’impressione che suscitano queste vostre inchieste, penso al caso Montante o allo scioglimento dei comuni o ai beni confiscati, è che ci sia un’esigenza, poco sentita, di tutelare il cittadino dalle Istituzioni. È un concetto che dalle nostre parti non ha grande familiarità mentre invece è molto sentito ad esempio negli Stati Uniti.

“Certo, la comunità dev’essere tutelata da vizi antichi di certe istituzioni, e non penso tanto alla corruzione quanto all’ignavia. Il tema dei beni confiscati è un racconto di ignavia progressiva, di fumisterie burocratiche, di prefetti alla guida dell’Agenzia che si nascondono dietro il rispetto astratto della norma di legge. Non è mai accaduto che un grande ente pubblico sia stato affidato alla direzione di un prefetto; accade invece con l’Agenzia dei beni confiscati. Non ci si rende conto di quanto sia alta la sfida. Parliamo di migliaia di aziende confiscate, decine di migliaia di beni immobili…ricondurre questo patrimonio a un corretto utilizzo sociale vorrebbe dire sviluppo, lavoro. La legge La Torre non è solo la sanzione contro la mafia, è soprattutto il riutilizzo di quello che alla mafia abbiamo tolto”.

E invece?

“E invece tutto questo non accade. Un’associazione ha scoperto che in un terreno da anni confiscato nel Catanese il vecchio proprietario continuava a starci e a raccogliere arance. I ragazzi di questa cooperativa hanno chiesto di poterle vendere loro, le arance. Un funzionario dell’agenzia ha risposto con un’algida letterina che quelle arance andranno vendute e il ricavato andrà al fondo della giustizia perché questo è previsto dalla legge. Punto. La legge usata come tabù burocratico, priva del senso della misura. Per far diventare strumento di sviluppo questa legge bisogna investire sulla formazione degli amministratori giudiziari, evitare di affidare la guida dell’agenzia sempre ad un prefetto, creare sinergie istituzionali, un circuito virtuoso tra le aziende confiscate. Abbiamo appreso di una betoniera, un mezzo da 250 mila euro, inutilizzata in un’azienda confiscata quando un’altra azienda confiscata ne aveva chiesta invano l’affidamento. Un anno per rispondere. È marcita al sole”.

Che fare allora?

“Presenteremo un ddl regionale e una legge voto per il parlamento nazionale nei prossimi giorni. Mi piacerebbe un governo che a Palermo o a rom dica: sapete? La priorità per il Sud non è il ponte sullo Stretto ma fare diventare la gestione dei beni confiscati uno strumento per creare ricchezza sociale”.

E che idea vi siete fatti di cosa sarebbe necessario per evitare aspetti patologici, con profili criminali, nella gestione dei beni confiscati, analoghi a quelli per cui è in corso il processo che riguarda Palermo e che, ricordiamolo, non è ancora arrivato a condanne definitive?

“Si è pensato di intervenire in emergenza, prevedendo un albo degli amministratori, il cumulo degli incarichi, l’obbligo della rotazione… Bene. Ma io mi chiedo perché debbano essere solo commercialisti e avvocati a gestire quei beni, perché non si investe nella pubblica amministrazione per formare risorse umane in grado di gestire un bene confiscato”.

Per certi versi questo è stato anche un bel bancomat.

“In alcuni casi continua a esserlo. Ma come per il sistema Montante, il sistema Saguto non era solo quello di una zarina con una corte di vassalli che usavano obbedir tacendo. Era un sistema di interessi reciproci. Piccoli e lucrosi ambiti di potere che si sono difesi e accompagnati a vicenda”.

E questo non avviene più?

“Ne dubito. Lì dove il privato ha bisogno di una politica disponibile a rimuovere gli ostacoli, la trova sempre. L’interferenza funziona, e paga. Un esempio: sta per arrivare in Sicilia un miliardo di euro per tecnologie energetiche. Ci sono già duecento progetti di fotovoltaico già presentati alla Regione siciliana. Dice un rapporto della Dia: ‘occhio, quelli che investivano i denari sporchi nell’eolico una parte di questi denari li sta facendo transitare nel fotovoltaico’. In più abbiamo due grandi progetti di termovalorizzatori per la provincia di Catania, uno dei quali presentato da Leonardi. Un altro mezzo miliardo di investimenti. C’è solo un ostacolo, e cioè chi pretende alla Regione di fare applicare la legge. C’è una Commissione tecnico scientifica guidata dal professore Aurelio Angelini che lo fa molto bene. Bene: emendamento in finanziaria del centrodestra: la commissione non esiste più. Al suo posto ci sono tre commissioni, non c’è più un presidente e le decisioni finali sono demandate al dirigente regionale. E questo accade proprio quando la commissione in questione aveva giudicato questi due progetti per i termovalorizzatori sovradimensionati e non congrui alla legislazione vigente. Era un ostacolo: adesso viene asfaltata!”.

Con quale ratio si presenta quest’intervento?

“Hanno detto che questo imbuto della Commissione tecnico scientifica ha paralizzato l’imprenditoria siciliana: palle! Al contrario, hanno aumentato il numero dei progetti esitati, è stato smaltito l’arretrato. Il modello è quello: interferire, condizionare le funzioni di controllo, privatizzare la politica. Dopo Montante cambiano i nomi, ma il sistema c’è tutto”.

Il caso Montante ha avuto vasta eco mediatica ma di vicende di presunti o accertati interessi privati che hanno condizionato interi settori in Sicilia ne abbiamo raccontate tante altre sulla Sanità, sulla Formazione professionale, sull’Energia, sui Trasporti. Se non è la regola diciamo che non sembra esattamente l’eccezione.

“Dell’intera vicenda Montante l’episodio che mi stupì più d’ogni altro è una intercettazione del cavaliere, già indagato, che parlava con la sua assessora regionale: ‘Adesso con questo assessorato facciamo la terza guerra mondiale!’. Indagato per mafia, invece di tenere un profilo basso, rilanciava. Ecco, quello che resta e stupisce è l’irriducibile senso dell’impunità”.

Ma qual è il livello di fiducia del cittadino nelle istituzioni oggi? Perché tutte queste vicende hanno spesso al centro personaggi che hanno massima copertura istituzionale.

“Il livello di fiducia non lo devi soltanto costruire. Devi recuperarlo e riaffermarlo, giorno per giorno. Penso all’Università di Catania, alla più grande inchiesta che abbia coinvolto una università italiana e che è precipitata in un silenzio collettivo. Se leggi le intercettazioni, vedi rettori e docenti che si dicono: ‘l’università è roba nostra, appartiene alle nostre famiglie, è destinata ai nostri figli’, come certi privilegi feudali. C’è stata una reazione a tutto questo? Si è aperta una discussione che diventasse una capacità di rinascenza? No, c’è stata l’ansia di mettere tutto a tacere e fare modo che dello scandalo si parli solo nelle aule giudiziarie”.

Come si dovrebbe affrontare la questione secondo lei?

“Non certo alzare le forche in piazza ma ragionare, interrogarsi, recuperare un senso alto, etico sulla funzione del sapere. È stato fatto? No! Per questo mi diverte che, dopo anni di silenzio, da certi ambienti universitari si alzino attacchi proprio contro di noi! E questo disagio riguarda anche la magistratura, me lo faccia dire”.

E si figuri se proprio io non glielo faccio dire, visto che ne ho scritto tante volte.

“La mia generazione ha un peccato originale: avere preteso di affermare un crisma fideistico di infallibilità dei magistrati dopo la stagione delle stragi. Io e tanti altri, scossi emotivamente, abbiamo creduto di dover difendere sempre e comunque la magistratura. Sbagliato. È come se io dovessi difendere i giornalisti a prescindere, per il prezzo che taluni di loro hanno pagato. Il debito morale verso i magistrati uccisi noi lo abbiamo trasformato in una certezza di infallibilità per tutti. Generalizzando e assolvendo a prescindere, abbiamo reso un cattivo servizio ai molti magistrati che fanno un lavoro degno, faticoso e rischioso. Pensare che solo Palamara, o la Saguto come Montante, siano il male mentre gli altri avrebbero solo subito e taciuto: ecco, è molto comodo. Ma è falso”.

Non mi pare che lo scandalo della magistratura abbia avuto un’attenzione proporzionata all’enormità della sua portata.

“Il senso di impunità che manifestava un magistrato come Palamara nei suoi conciliaboli con i politici e nei suoi giochi di palazzo al Csm è rivela un malessere profondo, di una patologia grave. È il segno di una crisi morale che pretende ragionamenti laici, non atti di fede. E invece vedo il modo in cui viene pubblicamente derisa Fiammetta Borsellino quando denuncia, con nomi e cognomi, talune superficialità dei colleghi del padre nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Come a dire: ma come ti permetti? Io invece voglio permettermi, voglio ragionare sull’umana fallibilità di ciascuno di noi. E ho riconosciuto invece lo stesso tono spocchioso nell’anatema con cui alcuni docenti dell’Università hanno accolto le nostre inchieste: ‘ma come ti permetti?’”.

Lei parlò tempo fa della necessità di una ‘antimafia scalza’. Ma non potremmo mettere da parte questo concetto di ‘antimafia’ inteso come un circolo chiuso e fare della cultura della legalità, non ‘anti’ ma ‘pro’, un patrimonio condiviso senza campioncini e carriere?

“Sì, un’idea di legalità e di sviluppo. Posiamo definitivamente quest’antimafia manettara, vittimista, lamentosa ed esibizionista. Per andare verso un’idea civile, utile, laica. Basta col circo mediatico che serve solo a portare in processione Sant’Agata e Santa Rosalia. Non ci servono santi né martiri. Alla mafia fa male la rigorosa normalità dei nostri gesti e delle nostre parole”.

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