Palermo e la paura di tornare indietro - Live Sicilia

Palermo e la paura di tornare indietro

Non abbassare la guardia.
SEMAFORO RUSSO
di
3 min di lettura

Quando mi capita di assistere a una fiction, a un reportage sulla Palermo del passato e del presente mi assale un incomprimibile sentimento di rabbia e di disgusto. Ho guardato anch’io la puntata di “Città segrete” dedicata a Palermo condotta da Corrado Augias e al di là dei legittimi giudizi di ognuno sulla qualità del racconto ancora una volta ho provato quelle fastidiose sensazioni, ma Augias e il programma c’entrano poco mentre c’entrano molto i miei concittadini, non tutti grazie a Dio, di ieri e di oggi. Scorrono le immagini delle mattanze di mafia degli anni ’70,’ 80 e ’90, dello scempio edilizio di limiana e cianciminiana memoria (corresponsabile l’intera classe politica di allora) e mi chiedo non soltanto dove fossero le istituzioni, in parecchi suoi rappresentanti a ogni livello colluse e conniventi, ma dove fossero i cittadini e se la paura giustificasse la codardia e il silenzio. La realtà è più drammatica se possibile, in un tempo in cui i mafiosi frequentavano i salotti “bene” insieme a prelati, giudici, oscuri personaggi di logge e Servizi, politici e imprenditori. Se la mafia, prima dell’edilizia selvaggia, poi della droga e della finanza internazionale, ha potuto spadroneggiare sicura della totale impunità è perché ampi strati della società palermitana e siciliana con Cosa Nostra facevano affari, non occorreva alcuna “punciuta”, alcuna formale affiliazione. È dura dirlo ma padri, nonni e bisnonni hanno un’enorme colpa per la devastazione materiale e morale perpetrata a danno della nostra città, della Sicilia. E chi non era in affari con i boss – perché, lo sappiamo, non si muoveva foglia nell’edilizia, nel commercio, nell’impresa senza il permesso dei capi mandamento – preferiva voltarsi da un’altra parte o considerare la criminalità organizzata una noiosa questione di competenza degli organi di polizia e giudiziari. Personalmente a scuola, in parrocchia o in oratorio non ho mai sentito un insegnante, un preside, un prete, un qualunque dirigente pronunciare la parola “mafia”, nemmeno nelle famiglie del resto, noi ragazzi eravamo all’oscuro di quanto stava accadendo, i morti erano centinaia però nessun corteo, nessun percorso di educazione alla legalità. Le cose cambiarono con l’avvento dei corleonesi, con le stragi di Capaci e via d’Amelio, prima no, a dispetto dei terribili omicidi di magistrati, poliziotti e giornalisti. Un sussulto, preludio delle imponenti manifestazioni di piazza contro la mafia del 1992, si avvertì con l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e la coraggiosa denuncia del cardinale Salvatore Pappalardo ai funerali del generale-prefetto dinanzi a un impietrito Sandro Pertini. Come potevamo noi giovani, come potevano gli adulti onesti reagire sotto una così densa nube di compiacenze o di indifferenza e omertà?

E adesso? Certo, solo uno stolto potrebbe affermare che nulla è cambiato, che la società palermitana è la stessa, che lo Stato è lo stesso, no, nemmeno la mafia è la stessa, ha accusato il colpo dopo i numerosi arresti e l’implacabile 41/bis. Ciò non ci deve fare abbassare la guardia. Emerge dalle ultime inchieste, dalla recente cattura di capi e gregari: esiste un pezzo di città, dal piccolo commerciante al politico in cerca di voti facili, dall’imprenditore ambizioso al professionista senza scrupoli che non si è tolto il vizio di ricorrere ai boss per accordi scellerati, ottenere una “giustizia” parallela, scavalcare chi rispetta le regole e conquistare posizioni di vantaggio. Ho l’impressione di un pericolo costante nonostante gli straordinari risultati conseguiti da Procure e forze dell’ordine, ho il timore che si possa tornare indietro. Il sindaco Leoluca Orlando ripete che la mafia non è morta ma non comanda più, è vero, non comanda più nei piani alti del potere in maniera spudorata ma non è morta appunto. È viva con i suoi velenosi tentacoli nell’economia e nella finanza attraverso i cosiddetti “colletti bianchi”, è viva nelle istituzioni per colpa di politici spregiudicati, è viva nel racket, nel pizzo, è viva nelle periferie e nei quartieri residenziali, una lotta infinita che tale non sarebbe senza complicità e acquiescenza. Dobbiamo reagire, deve reagire l’antimafia diffusa delle persone semplici e oneste, non quella dei distintivi e dei pubblici encomi spesso fasulla. Di coloro che quotidianamente praticano la legalità nelle piccole cose, nel lavoro, nei rapporti sociali ed economici. L’antimafia non gridata ma operosa e dirompente di padre Pino Puglisi.

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