L'agenzia funebre e quello sgarbo al boss di Brancaccio

L’agenzia funebre e lo sgarbo al boss di Brancaccio e alla moglie

Luigi Scimò si muoveva su due fronti. L'anno scorso la condanna, oggi il sequestro

PALERMO – Boss e impresario di pompe funebri. Luigi Scimò si muoveva su due fronti. Lo scorso settembre è stato condannato a 16 anni in primo grado, oggi su disposizione del questore gli è stata sequestrato l’attività commerciale.

Luigi Scimò

Sarebbe stato Pietro Tagliavia, arrestato nel 2017 a passare il bastone del comando a Luigi Scimò, che a Brancaccio tutti chiamano Fabio, e a Salvatore Testa. Secondo la Dda di Palermo e la squadra mobile riorganizzarono la famiglia mafiosa di Corso dei Mille e l’interno mandamento.

Si sarebbero mossi cercando appoggio e alleanza con altri boss. Come Pietro Salsiera e Sergio Napolitano di Resuttana, Giovanni Sirchia di Passo di Rigano, Filippo Bisconti di Belmonte Mezzagno (oggi collaboratore di giustizia) e Leo Sutera, rappresentante della provincia di Agrigento. Oggi sono tutti detenuti.

Quando Scimò fu scarcerato nel 2014 Tagliavia diede subito incarico a un suo uomo di mettersi a sua disposizione, di fargli sentire la vicinanza della famiglia. E c’era sempre Scimò, così ha raccontato il pentito Salvatore Sollima, fra i presenti ad una riunione convocata nel 2015, fra i boss di Bagheria e quelli di Brancaccio per mettere a posto delicate questioni di confine. I bagheresi si presentarono armati fino ai denti, ma non fu necessario usare le pistole calibro 38 e 7.65 che si erano portati dietro.

Il 3 luglio 2018 dell’anno scorso Scimò e Settimo Mineo, l’anziano boss che presiedeva la nuova commissione provinciale di Cosa nostra, si diedero appuntamento in un’agenzia di pompe funebri in corso Calatafimi. C’era pure Salvatore Sorrentino, detto lo studentino, braccio destro di Mineo, anche lui arrestato.

Il 4 maggio 2016 in via Amedeo D’Aosta, davanti all’agenzia funebre che ora è stata sequestrata, fu appiccato il fuoco ad una Fiat Seicento e a un Mercedes Vito. I mezzi erano intestati alla società di Giovanna D’Angelo, moglie di Fabio Scimò. L’agenzia invece era formalmente intestata a Pietro Di Marzo, genero di Scimò.

Ad appiccare le fiamme sarebbe stato Vincenzo Machì, pure lui fra gli arrestati del blitz della polizia e pi condannato a due anni. Sarebbe stato lui a sfidare il capomafia con un gesto eclatante di cui non è stato chiarito il movente.

Le telecamere del condominio dove abitava Scimò hanno filmato l’arrivò di Machì, pregiudicato per furti e rapine, al volante di una Fiat Punto per un sopralluogo e il successivo ritorno sul posto con un bidone di benzina. Di Marzo si attivò subito. Innanzitutto procurandosi le immagini del sistema di videosorveglianza del condominio.

La vicenda dell’incendio sarebbe stata discussa nel corso del successivo 26 maggio in una riunione a cui parteciparono, oltre a Scimò, anche Filippo Bisconti, boss di Belmonte Mezzagno e oggi collaboratore di giustizia, e Giovanni Sirchia, uomo d’onore della famiglia di Boccadifalco-Passo dì Rigano. Sirchia è stato arrestato nei mesi scorsi in una tranche dell’inchiesta Cupola 2.0, che ha svelato il tentativo dei capimafia palermitani di ricostituire la commissione di Cosa Nostra. Non si sa cosa si siano detti alla riunione, ma l’incendio era diventata una questione grave che andava risolta.


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