Sequestro di beni per un milione agli eredi del boss Marchese

Sequestro di beni per un milione agli eredi del boss Marchese

Sequestrate due abitazioni a Villagrazia, un distributore di carburante in via Oreto e 4 rapporti bancari

PALERMO – I carabinieri del nucleo investigativo di Palermo hanno eseguito un provvedimento di sequestro per un milione di euro nei confronti degli eredi di Mario Marchese, morto il 14 aprile del 2016 e condannato al maxi processo. Il provvedimento è stato emesso dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo.

Sono stati sequestrate due abitazioni nella zona di Villagrazia, un distributore di carburante in via Oreto e il complesso di beni aziendali, e 4 rapporti bancari.

Classe 1939, Mariano Marchese era stato arrestato di nuovo nel 2016 con l’accusa di essere il nuovo capo mandamento di Santa Maria di Gesù. Il vecchio che avanza. Alla soglia degli ottant’anni era tornato a comandare come dissero i carabinieri del Gruppo di Monreale e del Ros di Palermo.

Lo zio Mariano, così lo chiamavano tutti, era già imputato nel primo maxi processo alle cosche. In realtà di lui si parlò ancora prima, nel 1981. Si disse che era riuscito a scappare all’arresto. I poliziotti fecero irruzione in una villa e furono accolti dalle pistolettate di chi dentro discuteva di affari di droga. Tra i presenti anche Benedetto Capizzi che, diventato successivamente il capomafia di Villagrazia, sarebbe stato arrestato nel blitz Perseo del 2008. Capizzi si era spacciato per malato e scontava l’ergastolo per omicidio agli arresti domiciliari. Nel frattempo provò a riorganizzare la cupola di Cosa nostra.

Sono sempre stati grandi amici Capizzi e Marchese. Il primo lo scagionò dicendo che Marchese gli aveva prestato la macchina. Ecco perché l’auto era parcheggiata davanti alla villa del blitz di Villagrazia. Marchese poi fece giungere in Procura, mente era latitante, la prova che il giorno dell’irruzione era dal medico a curarsi.

Strano destino il suo. La regola di Cosa Nostra impone che i capi restino tali nonostante siano da decenni in carcere. Il blitz di cinque anni fa svelò un retroscena. “Mischini”, sono anziani e malati, diceva Marchese di Totò Riina e Bernardo Provenzano. La loro morte era vista come l’avvio di una nuova stagione per l’intera Cosa nostra. Un punto e a capo necessario per l’intera organizzazione. Marchese nel parlava co Santi Pullarà, figlio del boss Ignazio. “L’hai visto?… sta morendo… (sorride)… mischino…”, così Francesco Di Marco avviava la discussione su Provenzano. “E se non muoiono tutti e due – diceva Pullarà – luce non ne vede nessuno… è vero zio Mario?”. Nel “tutti e due”, secondo gli investigatori, includeva anche Riina.

“Lo so”, rispondeva Mariano Marchese che tirava in ballo altri cognomi pesanti: “Beh… e beh… non se ne vedono lustro… e niente li frega… ma no loro due soli… ma… tutto u vicinanzo… era sotto a loro… Graviano, Bagarella, questo di Castelvetrano…”.

Un chiaro riferimento a Matteo Messina Denaro. Regola di Cosa nostra impone che, nonostante siano ormai sepolti da decenni in galera, Riina e Provenzano restavano i capi di Cosa Nostra. Solo la morte o un pentimento avrebbe potuto dare il via libera a nuove nomine.


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