Cimitero dei Rotoli, neanche la morte è a tempo indeterminato

Rotoli, neanche la morte è a tempo indeterminato

L'orrore e la vergogna del cimitero dei Rotoli

Ricordo perfettamente la strada che conduce alla tomba di mio padre, nel cuore del cimitero dei ‘Rotoli’. E non la trovo mai, in un primo momento. Potrei descrivere l’albero sul cammino, la biforcazione e il volto sulle lapidi degli ignoti compagni di viaggio di un dolore diffuso. Ma poi, nel muovere concretamente i passi, mi perdo. Non ravviso nelle cose il percorso che ho nitido in testa. Forse perché un camposanto è essenzialmente un luogo del cuore, soverchiato dalla pena della realtà. O forse è che i morti sono giocosamente dispettosi, per cui, perfino un padre seriamente professore, si prende il lusso di riscoprire certi scherzi da bambino e del nascondino che, comunque, in vita, non mancarono.

Io vengo qui ogni volta che devo dare una risposta definitiva a una domanda importante. E arriva sempre, magari per suggestione. Certe volte, mi arrabbio: se non vuoi farti trovare, il fiore lo metto sulla tomba di un altro che apprezzerà. E succede immancabilmente qualcosa. Come quando cominciai a seguire con lo sguardo uno stormo di uccelli che si posò sugli alberi. E gli alberi, mossi dal vento, indicavano un punto. La tomba di mio padre era lì, nell’ombra.

Ora, la mia pena è accresciuta da una circostanza: piangere i propri cari al cimitero dei Rotoli è diventato un odioso privilegio. Qualcosa che divide l’aristocrazia delle lacrime dal resto. La cronaca ci butta addosso le bare ammonticchiate qua e là che crescono ogni giorno. E povere anime vaganti, costrette a condividere il caldo, il fetore, e a farsi bastare una fotografia incollata al legno. C’è una discussione in corso, assolutamente legittima e doverosamente indignata, sull’amministrazione che non sa risolvere la catastrofe da mesi, con le sue foto d’archivio immodificabili. Ma, al fondo, rimane soprattutto, oltre la rabbia, un sentimento di desolazione che dà l’idea di come a Palermo sia impossibile vivere una cittadinanza dignitosa. Lo è, impossibile, per i vivi, ghermiti da una inefficienza complessiva ormai scolpita nell’abbandono. Lo è per i morti che non potranno nemmeno più tentare i loro scherzi nei confronti degli stessi vivi che vanno a trovarli, presi come sono dalla rassegnazione di una precarietà che non rispetta alcun confine.

E ce lo raccontiamo e ce lo diciamo e ci adiriamo, però, nella coda di ogni patimento, c’è una abulia dea sconfitti che abbiamo eletto a unità di misura delle nostre giornate. Si sopravvive al peggio, senza nemmeno il gusto della scossa civile momentanea. E non c’entra il Covid, o c’entra fino a un certo punto. Eravamo inerti anche prima.

Così, la prossima volta che andrò a trovare mio padre, so già la domanda che gli porrò: papà, perché a Palermo neanche la morte è a tempo indeterminato? Chissà, nel vento, quale sarà la sua risposta.

(foto d’archivio)


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