Andrea e la casa del nonno

Andrea e la casa del nonno

La fine della vita di qualcuno poteva essere toccata con mano da chi restava.
GAROFALO ALL'OCCHIELLO
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Andrea e la mamma si aggirano in una casa vuota lentamente, con rispetto. È la casa del nonno, ma lui non c’è più. Tutto parla ancora di lui, i mobili, le suppellettili, i quadri alle pareti. La polvere sembra essersi posata più velocemente dei ricordi, che invece si diluiscono in un tempo più dilatato.

Andrea, generazione alpha, ha nove anni e lo stesso nome del nonno; anche per questo lo sente ancora così vicino. Non ha mai capito quale fosse stata la sua attività lavorativa, certamente secondaria, avendolo conosciuto che era già pensionato. Di certo sapeva qual era stata quella principale: mago. L’infanzia di Andrea era costellata di piccole e grandi magie ad opera di quell’uomo straordinario, dalle mani grandi e dalle dita legnose, fra le quali sparivano gli oggetti più disparati: monete, forchette, tappi di sughero, oggetti di tutte le dimensioni che con movimenti eleganti e tentacolari finivano nel nulla, proiettati forse in un universo parallelo. Un universo dal quale riemergevano, alla fine, in un’aura di mistero e di sorpresa, dentro un cassetto dell’altra stanza, o dietro il televisore, o fra i capelli del nipotino, in una magica carezza. “Esperimento riuscito!”; sentiva la sua voce ancora nelle orecchie.

Accostata al tavolino, la sedia con l’imbottitura viola. Il nonno ci si sedeva sempre per armeggiare con un bell’orologio da tavolo, ben rifinito, dai rintocchi cristallini e discreti, con il vizio del ritardo di un quarto d’ora ogni settimana; troppo bello per essere anche puntuale e preciso. Regolarlo non era mai stato possibile, neanche nelle mani sapienti di un mago. “Un giorno farò sparire anche quest’aggeggio!”, gli sentì dire una volta. Difatti, un bel giorno quell’orologio sparì alla vista di tutti.

Carla non si è ancora rassegnata a quella perdita, a quell’addio senza addio, ad una morte prosciugata di tutto il rituale che una morte abitualmente, umanamente, affettivamente provoca intorno. Nessun commiato, nessuna carezza, nessuno scambio di sguardi e di consegne. La disumanità di una fine non finita; morire come sparire. Rimangono gli ultimi fotogrammi di quel giorno grigio, lui che viene rapidamente introdotto in un’ambulanza, il dito che fa il segnale di un ‘dopo ci vediamo, non preoccuparti’; il respiro affannoso, non si sa bene se per la malattia o per la concitazione del momento. Poi solo le scarne informazioni da parte dei sanitari, tutto a distanza, tra schermi e diaframmi; un’umanità presentissima ma nascosta dietro mascherine e visiere. E la finestra al primo piano dell’ospedale, scrutata continuamente, nell’illusione che venisse fuori un segnale, un elemento qualsiasi di presenza; lui stesso, magari, smagrito, sciupato, provato ma guarito. Niente; solo il tempo che scorreva senza colore e senza speranze. Quindi l’anonima informazione della fine, quasi un artefatto. Troppo doloroso per essere vero.

Non si può finire così. Qualcosa ci è sfuggito dalle mani. Prima di adesso, prima che il contagio allontanasse le persone tra di loro, gli affetti e gli abbracci, i vivi dai morti, la fine della vita di qualcuno poteva essere toccata con mano da chi restava. Qualcosa di intangibile ci ha colpito nella nostra parte più tangibilmente fragile; una crudele disumanità, complice della pandemia, vorrebbe anche convincerci dell’inutilità di un cordoglio.

Andrea si aggira in quelle stanze come cercando qualcosa. Carla ha aperto qualche finestra e si è seduta sul bordo di una poltrona, dopo averlo spolverato appena. Stanchezza, ma anche prostrazione. Andrea rovista fra carte e giornali, come un commissario di polizia alla ricerca di chissà quali indizi e colpevoli. La porta dello sgabuzzino è chiusa; certamente è stato lui l’ultimo ad entrarci. La apre in un cigolio; uno scaffale in alto, fra scatole e barattoli di vernice. Dall’universo parallelo riemerge l’orologio, bello come il sole. ‘Esperimento riuscito!’. Lo prende delicatamente, per non far cadere nulla. Poggiato sul tavolo, tira fuori la chiavetta per dargli la corda; i rintocchi cristallini. Lo porterà a casa; lo poggerà in un angolo della cameretta, totalmente dissonante da quell’arredamento da generazione alpha. Adesso non resta che aspettare che anche lui ritorni.


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