La discarica dei Rotoli, qui è morta Palermo

La discarica dei Rotoli, qui è morta Palermo FOTO e VIDEO

Il nostro viaggio nello scempio del cimitero dei Rotoli. E Palermo sta a guardare.

Se questo è un cimitero, se questa non è una discarica. La discarica dei Rotoli, con le sue bare accatastate sotto le tende bianche, alcune scoppiate e ci sono tagli nel sudario improvvisato. Fiori che avvizziscono. Salme ammonticchiate, in attesa di una futuribile sepoltura. E ci scusiamo con chi soffre, con i parenti delle povere vittime di uno scempio se usiamo la parola ‘discarica’ che allude a precise responsabilità, con un soprassalto d’amore per chi è costretto a subire. Non è certo per mancanza di rispetto. Anzi, rinnoviamo qui a tutti il sentimento della nostra vicinanza. Ma nessuno può rimanere indifferente e non ci sono parole per quanto forti che possano dare la vertigine del viaggio nella città dei morti che osserva, con occhi di muto rimprovero la città morta. Discarica, dunque. Qui non c’è più dignità di affetti e di dolore. Qui c’è una scandalosa voragine che inghiotte la pietà, perfino nello squarcio di un telone che lascia intravvedere un pezzo di strazio.

Ma questa città è davvero morta, se riesce a tollerare una cosa del genere e andare avanti, senza scomporsi. Morta nelle sue speranze e nella sua capacità di provare smarrimento. Si avverte soltanto il fremito delle schiere che si mobilitano per la prossima campagna elettorale. Si conteggiano i bollettini del Covid. Tra la peggiore politica, a tutti i livelli, e il virus non esiste più niente, se non il superfluo. Si riorganizzano i sensi unici, talvolta, per un capriccio che nessuno comprende, si lucidano le retoriche contrapposte: il canto della propaganda di Palazzo delle Aquile e il controcanto dei ribelli che sognano l’assalto. In mezzo ci sono i palermitani sperduti: vivi e defunti. In mezzo c’è una desolazione che è diventata abitudine. Inciampi nel marciapiede rotto, rischiando l’osso del collo, patisci la schizofrenia dei cantieri e, infine, piombi qui, in una mattina di quasi estate, in un giorno di maggio, e vieni aggredito da un olezzo di decomposizione che prende allo stomaco. E al cuore. Per cui, anche narrare, da giornalisti, come accade nel successivo video, diventa impossibile, senza provare vergogna.

C’è mio padre, qui, da qualche parte. Ma non ho voglia di andarlo a trovare perché sono sopraffatto da quello che vedo. Gli ho comprato un fiore e lo depongo sulla tomba di un bambino, con i palloncini cotti dal sole e dei giocattoli-amuleto che servono soprattutto ai sopravvissuti per vedere giocare ancora colui che non c’è più. Incrocio una ragazza, con il suo mazzo di fiori, che va verso un tendone. Vorrei chiederle qualcosa, ma il suo sguardo mi ferma. C’è una mitezza dello strazio che non va disturbata. La discarica toglie la quiete del silenzio perfino a chi ha qualcuno da piangere con la sua sepoltura, perché è impossibile non sentirsi un elemento del paesaggio, non condividerne la pena. E ti sembra quasi che dai monumenti sgorghino lacrime, che il marmo si spacchi. Ecco la figura di una donna pensosamente ripiegata su se stessa, come se contemplasse ciò che non è contemplabile.

Sono circa novecento, secondo le ultime notizie, i feretri in attesa di sistemazione. Tutto è sulle spalle dell’assessore Toni Sala, che abbiamo sentito e che squaderna le sue osservazioni in una zona contigua del giornale. Sala, già consigliere comunale, è una persona perbene, ma non si capisce che cosa possa tentare, che cosa possa rappresentare, se non una foglia di fico da accompagnamento, nel settore dei cimiteri, per il tramonto dell’Orlandismo. Ormai, le chiacchiere mostrano la corda e si comprende in un luogo definitivo come i Rotoli, dove la nudità che si spoglia pure dei suoi travestimenti assume la chiarezza di un fatto incontestabile. Né si traggono auspici migliori dal personale politico che si intravvede nella fazione opposta. Per questa Palermo alla deriva ci vorrebbe l’Orlando gigantesco delle sindacature nascenti. E non c’è più.

Da una porta socchiusa, il magazzino degli orrori, all’ingresso del cimitero. Una coppia sosta lì per piangere nell’ombra. Lui è ripiegato, lei lo abbraccia, con gli occhi arrossati. E’, nella cronaca di una separazione che non sappiamo, un dettaglio che rincuora il ritorno dell’umanità. I nostri morti non sono cose. I nostri morti non sono munnizza. Erano persone e li abbiamo amati. Li conserviamo nelle foto. Ci amano nei ricordi che, improvvisamente, ci visitano, quando stiamo pensando distrattamente e un soffio di vento riprende il filo di un discorso interrotto, con una freschezza che si trasforma subito in lancinante consapevolezza. I nostri morti e noi vivi che li circondiamo di impotente amore: nessuno merita questo. Una signora, china su una bara che quasi fuoriesce dal deposito, sistema delle rose gialle e cerca di organizzare un piccolo giardino nel caos. E’ troppo. Non resta altro che scappare. Da un loculo spunta fuori una sigaretta, un altro amuleto, come per offrire un sorriso di memoria dell’esistenza. Il mare è lontano. I gabbiani gridano con rabbia. Via dalla discarica della città dei morti, dove Palermo è morta.


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