La visione di Giovanni e Paolo - Live Sicilia

La visione di Giovanni e Paolo

La riflessione del procuratore aggiunto di Catania Francesco Puleio.

La giornata del 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, come quella del 19 luglio, giorno dell’eccidio di via D’Amelio, non devono essere soltanto un giorno di ricordo e di commemorazione delle vittime di mafia, ma, per tutti i cittadini, un momento di riflessione sull’eredità di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e di rinnovo dell’impegno di ciascuno nel contrasto all’illegalità ed alle mafie, la cui tensione non deve mai abbassarsi. Per comprendere la profondità delle loro intuizioni e direi quasi delle loro visioni. Insieme agli altri colleghi del pool, Giovanni e Paolo ci hanno insegnato che nella lotta alla mafia non basta perseguire il singolo reato e individuare i responsabili di crimini anche brutali; bisogna ricostruire l’orditura complessiva della Piovra, agire su tutte le articolazioni su cui si radica il potere della mafia. Quelle sociali, quelle economiche. Quelle che oltrepassano i confini nazionali. Per questo, la risposta a tale sistema criminale non può che basarsi su indagini coordinate a livello nazionale e internazionale. 

Sono passati molti anni, ma sembrano passati secoli: quando il pool di Palermo iniziò ad occuparsi di mafia, nei processi, sulle televisioni e sui principali giornali del Paese, di mafia ancora non si poteva parlare. E tutti quei processi finivano con assoluzioni per insufficienza di prove. Falcone e i suoi colleghi decisero che quelle prove si dovevano trovare. E presero ispirazione dai grandi processi di oltreoceano contro la mafia degli anni Venti, rendendosi conto che le vittorie della giustizia americana nascevano dall’avere  perseguito i mafiosi proprio seguendo la traccia maleodorante del flusso di denaro sporco. Potrà sembrare considerazione semplicistica, direi oggi quasi cinematografica, ma resta il fatto che sin dai tempi di Al Capone, negli USA un criminale responsabile di centinaia di omicidi fu condannato ad undici (11) anni di prigione per evasione fiscale! Quando questo sarà possibile anche in Italia, avremo veramente compiuto un passo decisivo nella sconfitta definitiva del crimine organizzato, qualunque livrea esso indossi.

Nasce qui il celebre motto “follow the money”, segui il denaro: dalla constatazione che il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose sono le tracce che lasciano dietro di sé i grandi movimenti di denaro connessi alle attività criminose più lucrose. Ricostruendo con certosina pazienza tutte le girate di una montagna di assegni – con strumenti allora primordiali, che richiedevano un incredibile lavoro – le prime indagini patrimoniali svelarono il volto di una mafia camaleontica che, come abbiamo poi visto nei decenni, cambia l’obiettivo degli affari, ma rimane nel metodo e nella violenza sottesa a quegli affari sempre uguale a sé stessa. La mafia si fa per arricchire, diceva il pentito Nino Giuffré. 

In Italia, da quando le entrate sono state centuplicate dal contrabbando di tabacchi e poi dal traffico internazionale di stupefacenti, i clan hanno cominciato a reinvestirne i proventi nei circuiti economico-finanziari. Inizialmente lo hanno fatto in modo artigianale, ricorrendo a cugini e cognati come prestanome. Oggi si affidano agli specialisti dell’‘economia canaglia’, riciclando il denaro in mille modi, dalla falsa fatturazione agli investimenti finanziari. Sempre più spesso utilizzano professionisti che offrono servizi in cambio di denaro e di altre utilità, liberi da qualunque burocrazia, pensiero e azione criminale. Ed hanno intrapreso una inquietante penetrazione del mercato e dell’economia nazionale, affiancando sotto il profilo delinquenziale la progressiva risalita della linea della palma che, come diceva Sciascia, ogni anno rimonta di qualche metro.

La criminalità mafiosa può dunque permettersi di comprare qualunque attività commerciale o produttiva. E l’ombra delle mafie non si proietta solamente nella campagna acquisti delle imprese in difficoltà. Ambisce alle risorse allocate per l’emergenza, dallo Stato e dall’Europa: dove c’è denaro e potere, prospera il crimine organizzato.

Proprio per tale ragione, non si può nascondere l’allarme in vista del prossimo arrivo di grandi quantità di denaro attraverso il Recovery fund. I programmi di sostegno dell’Europa sono preziosi per tutta la nostra società, ma possono essere anche una ghiotta occasione per le bramosie criminali. Per questo dobbiamo moltiplicare l’attenzione: la ricostruzione è sempre stata molto più appetibile della prevenzione, garantendo impensabili margini di lucro. Il rischio è quello di dover arrancare poi nel singhiozzo delle indagini, cercando di contrastare un’attività scellerata alla quale non si deve fornire l’occasione di manifestarsi. Non possiamo permetterci il rischio che mani sbagliate intercettino questo flusso di denaro. Per un duplice ordine di motivi. 

Il primo. La criminalità organizzata costituisce, insieme alla corruzione ed all’evasione fiscale (largamente praticate, peraltro, anche dalle mafie) il principale fattore distorsivo del sistema economico. Una visione deformata della realtà delle nostre regioni ha tramandato per anni una vulgata secondo la quale la mafia (e non lo Stato) dà lavoro. Non è vero. Ogni apparente aiuto della mafia al mondo produttivo comporta un prezzo altissimo: i dati su racket e usura lo confermano. L’abbraccio della mafia paralizza e strangola; provoca sempre, prima o poi, la crisi e, in seguito, la fine della stessa impresa, con l’estromissione dell’imprenditore che l’aveva faticosamente messa in piedi. Alla fine, quei benefici illeciti che sull’istante sembravano favorire una fioritura, in realtà generano una forte depressione. Sono falsi amici.

Il secondo. Le aziende cresciute all’ombra dei clan si avvalgono di determinate agevolazioni, diciamo così, che una finanza pulita non può ottenere. Hanno illeciti collegamenti sul territorio, una manodopera non pagata nel rispetto delle norme, nessun ‘problema’ con i concorrenti o con i lavoratori. Tanto si deve fare in questo campo, perché non basta chiudere un’impresa mafiosa per eliminare un elemento di disturbo al corretto sviluppo del sistema: occorre evitare di lasciare un vuoto che venga letto come una risposta negativa della società. Occorre sconfiggere l’idea di coloro che, per ignoranza o interesse, ancor oggi ripetono: “La mafia dà lavoro ai bisognosi”.


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