Altro che baby boom: è denatalità record - Live Sicilia

Altro che baby boom: è denatalità record

Il nostro continente merita ormai a buon diritto l’appellativo di “Vecchio Mondo”.
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Nel corso del primo lockdown alcuni buontemponi preconizzarono, data la reclusione domiciliare e l’assenza di svaghi, un boom delle nascite. I dati hanno smentito ogni previsione in tal senso. Il 22 giugno scorso il presidente dell’ISTAT ha lanciato un grido di allarme riguardo alla natalità, affermando che nel 2021 il bilancio di nati scenderà sotto la soglia delle 400mila unità. Sarà il record più basso di sempre nella storia del nostro Paese. Se nel mese di dicembre 2020, rispetto al dicembre precedente, si è registrata una caduta dei nati nell’ordine del 10%, legata ai minori concepimenti avvenuti ad aprile, nel gennaio 2021 si è vista una diminuzione del 14% rispetto all’inizio dell’anno precedente.

Il report completo dell’Istituto di Statistica rivela come si sia verificata una straordinaria caduta della frequenza di nascite, scesa sotto la soglia simbolica delle mille unità giornaliere: la media è di 992 nati al giorno, a fronte dei 1.159 del gennaio 2020. Nel bilancio anagrafico mensile risultano iscritti in Italia 30.767 nati vivi, ossia 5.151 in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Si tratta di una decrescita che, se valutata in termini assoluti, è stata sette volte più grande di quella registrata a gennaio 2020, allorché si ebbero 729 nati in meno rispetto allo stesso mese del 2019, mentre in termini relativi giunge a configurare una variazione negativa del -14,3%, superiore di oltre dodici punti percentuali a quella corrispondente nel 2020. Il timore è che si possa trattare, più che di un’oscillazione occasionale, della conferma di un malessere strutturale che va consolidandosi. 

Quale fattore è intervenuto ad accelerare la caduta della natalità in Italia? Nel bilancio demografico operano come sempre le componenti della dinamica naturale, nascite e decessi, ma il crollo record va interpretato anche alla luce delle incertezze profonde causate dalla diffusione della pandemia e dei suoi effetti più drammatici, per cui è la paura il sentimento che ha connotato la vita e le scelte riproduttive della popolazione in età fertile. 

Le variazioni negative più consistenti saranno rilevate a giorni, nel bimestre agosto-settembre 2021, in relazione agli effetti di contenimento delle gravidanze associato alla seconda ondata pandemica di novembre-dicembre 2020. Nei primi dieci mesi del 2021 il numero di nati, che dovrebbe essere ricompreso tra 317 mila e 326 mila unità, sarà tra il 7,1% e il 4,7% in meno dell’anno scorso; il massimo divario (4-5mila nati in meno rispetto al 2020) sarà in corrispondenza del mese di agosto.

Su base annua, ci si attende nel 2021 da un minimo di 384 mila a un massimo di 393 mila nati. Rispetto alle 404 mila nascite del 2020, il calo della natalità risulterà compreso tra il 3% e il 5%.

I dati nazionali confermano che l’effetto frenante della comparsa del virus sulla programmazione di una gravidanza si è diffuso in tutto il Paese, dalla Lombardia, la regione più colpita durante la prima fase pandemica, alla Sicilia, a quel tempo meno esposta all’infezione e alla mortalità, contesti profondamente diversi che però hanno mostrato le stesse scelte riproduttive. Appare chiaro che, al di là dei letali effetti pandemici, vi sia un trend negativo preciso: più che l’attribuzione di “colpe”, occorrerebbe contrastare il generale sentimento di sfiducia che pervade principalmente i giovani, programmando interventi per alleviare le tante difficoltà che spingono i futuri genitori ad attendere tempi migliori, lontani da venire. 

Questi i dati statistici per comprendere una situazione al momento non recuperabile. Ma, andando ancora più a fondo, è emersa una questione rimasta a lungo invisibile. Nel delicato settore clinico della neonatologia, durante la pandemia l’aumento dei nati morti è salito dal 260 al 500%.

La mortalità neonatale è in crescita. Con il Covid-19 la criticità si è manifestata in tutta Italia, in particolare nel Lazio, ove si è osservato un picco del 260% dei nati morti, come rileva uno studio coordinato dal professor Mario De Curtis, Direttore dell’Unità di Neonatologia dell’ospedale capitolino “Umberto I”. Nel 2020 le visite specialistiche sono crollate fino al 70%; le donne in gravidanza, per paura di contrarre l’infezione in ospedale, non hanno effettuato adeguati controlli. Questo fenomeno si è verificato anche in Lombardia, al “Mangiagalli” di Milano, dove si è registrato un aumento del 500% (tra marzo e maggio 2020) dei casi di morte endouterina. 

Anche negli altri Paesi i dati relativi alla decrescita sono sconfortanti, tanto che No Baby Boom è stato un titolo frequentemente apparso sulle testate americane all’inizio del 2021. L’incidenza della natimortalità è confermata dagli scienziati di tutto il mondo. In Inghilterra, presso il “St George’s University Hospital” di Londra, ci sono stati 9,31 nati morti per 1000 nascite (nessuna per Covid-19) rispetto al periodo prepandemico, un forte aumento rispetto a quando i numeri si attestavano al 2,38 per 1000 nascite. Gli effetti indiretti del Covid-19 sugli esiti perinatali sono in gran parte dovuti a interruzioni dell’assistenza sanitaria riproduttiva, materna, neonatale e infantile e all’effetto delle politiche di blocco. I 28 milioni di interventi rinviati o annullati in tutto il mondo, hanno riguardato anche le patologie cosiddette “benigne”, per cui sono stati cancellati o posticipati almeno il 25% dei parti cesarei, con le immaginabili conseguenze. Il rischio concreto, che motiva la necessità di rendere note queste vicende, è che il fenomeno non sia affatto circoscritto ma che si stia ripetendo anche in questo periodo e continui dopo il 2021.

Il nostro continente merita ormai a buon diritto l’appellativo di “Vecchio Mondo”. Nessun paese dell’Unione europea ha un tasso di natalità sufficiente a sostituire i decessi. I danni non sono solo demografici; molti economisti sostengono che la rallentata crescita della popolazione ha effetti deleteri, in quanto le aziende investono meno per il futuro e la crescita ristagna: l’invecchiamento delle società occidentali è la spiegazione chiave della bassa crescita della produttività e del calo dei tassi di interesse a lungo termine. 

Senza immigrazione la popolazione UE sarebbe in contrazione. L’immigrazione, dunque, è il modo più semplice e ovvio per l’Europa per aumentare la crescita della sua popolazione. Tuttavia, pochi politici sarebbero disposti a sostenere una maggiore immigrazione dall’esterno dell’Europa. E, lapalissianamente, se l’Europa vuole invertire il declino demografico senza aumentare la migrazione, dovrà aumentare i tassi di natalità. Gli esempi che abbiamo non sembrano edificanti: in Ungheria, il premier Viktor Orban ha dichiarato le cliniche per la fertilità un settore strategico. Alle giovani famiglie viene offerto un prestito che non hanno bisogno di ripagare se hanno un terzo figlio, e le donne con quattro figli sono esenti dall’imposta sul reddito a vita. Possibile che si sia giunti al punto che le politiche di promozione delle famiglie siano appannaggio della destra populista, con i suoi appelli alle famiglie tradizionali? 

In effetti, le misure di maggior successo sono ovunque quelle che mirano a semplificare la vita delle madri lavoratrici, che quando sono costrette a scegliere tra crescere figli o avere una carriera, scelgono di lavorare, ma invertire la tendenza è possibile. La Germania, Paese nel quale le misure per promuovere la fertilità erano tabù, a causa delle politiche legate al nazismo, è tuttavia riuscita ad aumentare il basso tasso di natalità. Durante il suo mandato come ministro della famiglia tedesco, Ursula von der Leyen introdusse politiche generose in materia di assistenza all’infanzia e congedo parentale. Secondo i dati Eurostat, le riforme contribuirono ad elevare il tasso di fertilità in Germania da 1,33 figli per donna nel 2007 a 1,57 nel 2017. Queste politiche sperimentate e vincenti dovrebbero essere promosse a livello europeo, e implementate all’interno di ogni Stato membro. In buona sostanza, le madri che lavorano, più che di ramanzine sui valori familiari, hanno bisogno del sostegno del governo per svolgere il loro difficile doppio ruolo; il contrasto alla decrescita neonatale dovrebbe scaturire dallo sforzo concertato tra le istituzioni per facilitare la vita delle donne che lavorano e combattere lo stigma dell’invecchiamento della popolazione, che danneggia tutti. Per comprendere a cosa si va incontro, basti pensare che nel 2018 la spesa pensionistica, inclusa la componente assistenziale, in Italia è stata pari a 293 miliardi di euro, ovvero il 16, 6% del Pil e il 34,4 % della spesa pubblica: si è speso per le pensioni quasi il triplo della spesa per la sanità, e il quintuplo della spesa per istruzione e ricerca. 

Secondo i dati resi noti da una infografica di Visual Capitalist che illustra la composizione per età della popolazione mondiale sulla base degli ultimi dati delle Nazioni Unite, entro il 2050, mentre la popolazione mondiale di anziani sarà più che raddoppiata, raggiungendo i 2,1 miliardi, vi saranno più del doppio delle persone sopra i 60 anni rispetto ai bambini sotto i 5 anni. 

Quaranta associazioni, per fronteggiare l’emergenza nazionale, si sono riunite per chiedere al Parlamento di dare un segnale culturale contro l’invecchiamento dell’Italia, istituendo la Giornata della vita nascente nella data del 25 marzo, che diventerebbe una ricorrenza istituzionale, per promuovere la cultura della natalità, aprire un dibattito sui temi della maternità, della paternità e della procreazione, creare un clima favorevole all’accoglienza della vita nascente. L’idea fu lanciata nel lontano anno 2000, che sembrava segnare l’inizio di una nuova era, da don Oreste Benzi. Oggi le cause della denatalità sono ancora più complesse: proprio per questo una riflessione sulle tematiche relative alla vita, per invertire la tendenza, si impone. 


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