Menzogne e stragismo mafioso: così uccisero Gianni Lizzio - Live Sicilia

Menzogne e stragismo mafioso: così uccisero Gianni Lizzio

Ecco le verità nascoste su come è stato ucciso un eroe.

 

CATANIA – Oggi c’è una lapide all’interno della sede della squadra mobile etnea. Un’altra ancora nel cortile della “Cardile”, caserma della polizia di Stato. E poi c’è quel murale lungo le pareti esterne del carcere di piazza Lanza, ritratto assieme ad altre vittime innocenti della lotta Antimafia a cura degli attivisti di AddioPizzo. L’ispettore Giovanni Lizzio, capo della squadra anti estorsioni della questura di Catania, moriva alle nove di sera del 27 luglio 1992, freddato da sei colpi di arma da fuoco, seduto nella sua Alfa 75 mentre aspettava il verde al semaforo di via Leucatia. Una morte subito mascariata, così come era già avvenuto con il giornalista Pippo Fava nel 1985.

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Stesso tentativo con il duplice omicidio degli imprenditori Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio, uccisi fuori dalle acciaierie Megara nel 1990. Oppure  – ma stoppato quasi immediatamente perché il profilo era fin troppo indiscutibile – quando l’avvocato Serefino Famà fu trucidato il 9 novembre del 1995. Infangati perché Catania non vuole martiri, nuovo eroi. Appunto perché quel sangue è pur sempre un atto di accusa nella coscienza dei pusillanimi, dei vili e dei corrotti.

Fu una notizia distorta, manipolata ad arte, intrisa di vergogna e malvagità, a oscurare il nome di Lizzio. Gianni per i più intimi. La notizia cioè che dei testimoni avrebbero visto gli assassini lanciare delle banconote da mille lire sul corpo del poliziotto in agonia. Di vero c’è che furono trovati dei soldi a terra, ma ben distanti dall’auto, nei pressi di un marciapiede. Magari persi da chi aveva appena comprato delle sigarette nella vicina tabaccheria o qualcosa nel panificio appena dietro l’angolo. Non sicuramente dagli assassini dell’ispettore, che spararono da sinistra – e non da destra – rispetto all’auto.

Fu montata una fake tremenda, un “chiecchiericcio da mediocri”, alla quale però qualcuno credette, persino a Roma. Tant’è che l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino e il capo della Polizia Vincenzo Parisi non presero parte alle esequie in cattedrale. C’erano però i catanesi: tremila persone presero parte all’estremo saluto tributato ad una persona che non poteva lasciare indifferenti. Per carattere, per la presenza fisica, per la generosità o per i modi – ritenuti talvolta bruschi e discutibili.

Ci vorranno molti anni per mettere ordine alla verità di quei giorni, a ripulirne la memoria – anche se c’è chi vorrebbe tranquillamente occultarla ancora. Gianni Lizzio viene assassinato all’interno della campagna terroristico-stragista dei corleonesi, una scia di sangue, piombo e tritolo che ha attraversato l’Italia dal 1992 al ’94, e che passa dalle bombe di Palermo, Firenze, Roma e Milano. Altro che fango ignobile, chi uccise Lizzio voleva colpire lo Stato, senza se e senza ma. Voleva colpire un simbolo, ma anche un nemico irriducibile.

La verità è che Totò Riina voleva esportare la sua guerra alle istituzioni pure a Catania, nonostante le titubanze di Nitto Santapaola che voleva mantenere in auge invece la strategia dell’inabissamento, dell’ingaggio non diretto con gli apparati governativi. Ma il boss di San Cristoforo alla fine dovette cedere alle pressioni dei corleonesi. Lo fece però a modo suo, scegliendo con cura la vittima innocente da sacrificare, evitando che i sospetti potessero ricadere immediatamente sul clan Santapaola-Ercolano.

Certo, alla guida della squadra anti estorsioni, Lizzio aveva più volte dato del filo da torcere agli uomini dello “Zio Nitto”. Ma non solo a loro. Tra il 18 e il 19 luglio di quel maledetto 1992 aveva portato a segno un’operazione terminata con l’arresto di 14 esponenti del clan Pillera-Cappello. Al fianco poi dell’associazione antiusura Asaec fece tantissimo per infondere coraggio ai commercianti etnei. Il metodi bruschi e sbrigativi, il carisma e – perché no la bella presenza – facevano di lui un personaggio da screditare con estrema facilità. Santapaola rispolverò il canovaccio vergognoso dell’omicidio Fava.

Le sentenze di tribunale parlano però chiaro. Nel 2003, nell’ambito di Orsa Maggiore 3, Nitto Santapaola è riconosciuto in via definitiva mandante della morte dell’ispettore Lizzio. Nelle fasi precedenti era stato riconosciuto anche il ruolo del boss Salvatore Pappalardo (ucciso nel 1999).

Il racconto del pentito eccellente Natale Di Raimondo, reso ai giudici nel novembre del 1998, fa luce su quanto stava accadendo all’interno della Cosa nostra catanese in quel caldo ‘92: “Erano i primi di luglio e mi recai al bar Ambassador – dichiarava – dove incontrai Aldo Ercolano (assolto da ogni accusa, ndr) e Salvatore Santapaola (deceduto nel 2003, ndr). In quella occasione mi diedero l’ordine di uccidere l’ispettore Lizzio. Non chiesi il perché ma dentro di me pensai che quell’omicidio era certamente voluto dai palermitani, ricollegando quell’ordine a un certo episodio accaduto qualche giorno prima.

Santo Mazzei era stato già fatto uomo d’onore e io ero stato incaricato di tenere i rapporti con lui; mi ero incontrato con il ‘carcagnuso’ il quale mi aveva riferito di essere stato, uno o due giorni prima, da Bagarella a Mazzara del Vallo e che questi era seccato tanto che, a suggellare l’immobilismo dei catanesi, aveva esclamato: ‘Che fa dobbiamo scendere noi a Catania per muoversi?’. Mazzei mi disse, quindi, che doveva parlare con Aldo al più presto”.

Se il quadro dei mandanti è suggellato, il tribunale di Catania farà luce anche sugli esecutori. Nel giugno del 1998, con Francesco Puleio pubblico ministero, saranno condannati in primo grado i collaboratori di giustizia Natale Di Raimondo e Umberto Di Fazio (entrambi a 12 anni); 30 anni con abbreviato per Francesco Squillaci (detto Martiddina) e Giovanni Rapisarda (scagionato poi in appello). Assolti nell’ordinario, invece, Fiilippo Branciforti e Francesco Di Grazia.

Giovanni Lizzio fu pedinato per giorni e giorni. Che la missione da compiere fosse delle più delicate, lo spiega la presenza nella cabina di regia non solo di Di Raimondo, responsabile tra gli anni ’80 e ’90 del gruppo di Monte Po, ma anche di Di Fazio, divenuto successivamente reggente del clan Santapaola. Ci fu un primo tentativo di agguato, ma fallito. Pochi giorni dopo tutto va tragicamente secondo i piani. Quando l’ispettore è incolonnato al semaforo, all’altezza di via Leucatia 121. Ha i finestrini abbassati, le porte chiuse, ma non assicurate. Nel sedile accanto il borsello e la pistola di ordinanza. È al telefono con la figlia Grazia.

Da sinistra si affianca uno scooter modello Sfera, scende Di Fazio che spara un primo colpo con la sua calibro nove colpendo Lizzio nell’avambraccio destro. L’arma s’inceppa. A quel punto Squillaci estrae un revolver calibro 38 e partono altri cinque colpi che raggiungo l’ispettore in rapida successione. Tutti andati a segno da distanza ravvicinata tra il collo e la regione mammaria. La fuga degli assassini è immediata, in controsenso verso la circonvallazione e quindi Monte Po. Le armi furono gettate in un cassonetto lungo il tragitto.

Tuttavia Lizzio non morirà sul colpo, sarà trasportato al Cannizzaro. Una corsa inutile perché arriverà privo di vita. La macchina del fango intanto era già partita. Nonostante tutto però, non tutti gli schizzi sono stati ancora ripuliti. Neanche il caso editoriale di Catania Bene a firma di Sebastiano Ardita, che ha rimesso ordine sul valore umano e professione dell’ispettore anti-racket ucciso nel ’92, è riuscito a ripulire certe incrostazioni dalla coscienza cittadina. Quella storia andava e va raccontata. Non magari per convincere le vecchie generazioni, ma per illuminare le nuove. Che hanno bisogno di poter contare su degli esempi cristallini. Sugli eroi.


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