Scopelliti, trent'anni senza verità: nessuna svolta dalla pista catanese

Scopelliti, trent’anni senza verità: nessuna svolta dalla pista catanese

Delle dichiarazioni di Maurizio Avola è rimasto un fucile arrugginito. Molti dubbi, soprattutto dopo le esternazioni su via D'Amelio.
L'OMICIDIO DEL GIUDICE
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CATANIA – Non c’è ancora una verità. Nemmeno una verità processuale per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Sono passati trent’anni da quell’agguato sulla tortuosa statale 18 tra Scilla e Campo Calabro. Il 9 agosto 1991 il sostituto procuratore Generale della Cassazione stava tornando a casa dopo una giornata di mare al lido Costa Viola. Sulla sua scrivania i faldoni del maxi processo a Cosa nostra siciliana, che da lì a breve avrebbe dovuto discutere davanti alla Suprema Corte. Ed è in quelle carte che molti, in questi tre lunghi decenni, hanno scavato cercando il movente. Ma gli investigatori non sono approdati a nulla. Se non ad una sentenza di assoluzione dei vertici della mafia.

Alcuni anni fa, a dare la speranza di una svolta, è stato Maurizio Avola, il soldato del gruppo santapaoliano di Ognina guidato da Marcello D’Agata. Il killer dagli occhi di ghiaccio, che ultimamente pare aver avuto una illuminazione nella memoria dopo oltre venti anni dal giorno della sua collaborazione, ha portato i poliziotti della Squadra Mobile di Reggio Calabria nella campagne etnee per recuperare un vecchio fucile seppellito lì da decenni dicendo che sarebbe stata l’arma con cui è stato ammazzato il giudice. Purtroppo quell’arma è così arrugginita che non si è potuto fare alcun accertamento balistico. Così quella che doveva essere la prova regina si è tramutata in una bolla di sapone. Ma quella richiesta di accertamenti irripetibili ha permesso la discovery dell’inchiesta con i nomi degli indagati, tutti siciliani tra cui il super latitante Matteo Messina Denaro. Per non parlare di volti noti della cupola catanese di Cosa nostra. I catanesi – a dire di Avola – avrebbero agito senza l’appoggio dei calabresi. Anche se avrebbero avuto l’autorizzazione per poter uccidere nella loro terra.

Ancora c’è da capire perché Avola, che asserisce di aver partecipato in prima persona all’omicidio di Nino Scopelliti, si sia portato il fucile fino a Catania trasportandolo non solo in auto, ma rischiando i controlli nel traghetto per attraversare lo stretto. Ma questi sono dubbi che sicuramente i magistrati che hanno interrogato Avola avranno diradato. Ma purtroppo il pentito catanese, autore di oltre 80 omicidi, ultimamente è stato bollato come inattendibile dalla Procura di Caltanissetta per le dichiarazioni rese alla magistratura nissena e anche al giornalista Michele Santoro (poi trascritte in un libro) sulla strage di Via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Per la commissione Antimafia regionale quelle di Avola sono “bugie”. E qualcuno rimette in discussione anche tutto quello che il killer catanese ha asserito nel processo ‘Ndrangheta stragista.

Sono trascorsi tre anni da quella ‘visita’ notturna a Catania degli investigatori calabresi. E quella svolta che sembrava essere arrivata in realtà non c’è stata. La pista catanese non ha portato a quella verità tanto attesa da Rossana Scopelliti, l’unica figlia del giudice. Verità che oggi, a trent’anni dalla morte di suo padre, chiede. Anzi pretende. Tutta l’Italia pretende.

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