Borsellino, le bugie dei pentiti e il "metodo Falcone" tradito

Borsellino, le bugie dei pentiti e il “metodo Falcone” tradito

Ventinove anni dopo l'eccidio la Cassazione sancisce una verità emersa con prepotenza dalle macerie
LE STRAGI DEL '92
di
5 min di lettura

PALERMO – Ventinove anni dopo il massacro di via D’Amelio la Cassazione sancisce una verità giudiziaria che era via via emersa con prepotenza dalle macerie. Le indagini furono depistate. Un manipolo di falsi pentiti costruì una storia parallela, fatta di bugie. Fecero tutto da soli?

Scarantino, Pulci e Andriotta

Al processo Borsellino quater, giunto ora alla sentenza definitiva, le contraddizioni sono state messe a nudo. Indagini quanto meno sbagliate, ergastoli ingiusti, ritrattazioni e ritrattazioni delle ritrattazioni. C’è voluto Gaspare Spatuzza per smascherare le bugie di altri collaboratori di giustizia. Le parole di Vincenzo Scarantino (per colui che diede il via alla catena di menzogne era già intervenuta la prescrizione), Calogero Pulci e Francesco Andriotta (questi ultimi due sono stati condannati ieri) sono state considerate Vangelo per una lunghissima stagione di processi.

“La falsa collaborazione”

Vale la pena ricordare le parole del sostituto procuratore generale Fabiola Furnari, che rappresentò l’accusa in appello, sul pentimento di Andriotta, pugliese di nascita, apparentemente estraneo al contesto territoriale, evidentemente attratto dalla promessa di benefici premiali: “Colpiscono, in modo significativo, i dati acquisiti sulla preparazione e gestione della sua falsa collaborazione, connotata, come accertato, da un progressivo, preciso, studiato, adeguamento delle sue rivelazioni alle esternazioni di Scarantino, e con un obiettivo specifico, dalla posizione di quest’ultimo inscindibile, ed evidentemente inteso a nuocere, e non per pochi anni, all’accertamento della verità pur al prezzo della condanna di altri persino a vita”.

Chi ha depistato?

Qualcuno depistava. Chi? Arnaldo La Barbera, il super poliziotto che coordinava gli investigatori, che però ormai è deceduto e non ha la possibilità di difendersi. Forse anche i poliziotti che sono ancora sotto processo per il depistaggio. Come hanno potuto da soli, se sono davvero stati loro, riuscire ad organizzare “il furto di verità su via D’Amelio” (la definizione è del presidente della Commissione regionale antimafia siciliana Claudio Fava)?

Una dozzina di processi non sono bastati a ricostruire cosa accadde dietro le quinte del fronte di guerra. Perché via D’Amelio fu il secondo atto della guerra mossa da Cosa Nostra contro lo Stato dopo la strage di Capaci. Fu solo Cosa Nostra? Ecco il tema centrale su cui si dibatte. Un tema attuale, visto che in molti pensano che il depistaggio, iniziato con le bugie di Vincenzo Scarantino, sia proseguito di recente con la figura di Maurizio Avola, killer catanese a cui ad un certo punto è tornata la memoria.

L’inchiesta sui magistrati

Nessuna responsabilità è emersa nei confronti della magistratura, mai scalfita né penalmente né disciplinarmente per avere dato credito a Scarantino. Si è indagato sui magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia a Messina ma è arrivata l’archiviazione perché ci furono “anomalie tecniche, giuridiche e valutative”, ma niente dolo, né consapevolezza di volere accusare ingiustamente degli innocenti. Ed ancora “non è individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati oggi indagati”.

Addio al metodo Falcone

Le grandi manovre oscure passavano sotto il naso dei magistrati senza che ne se accorgessero. Eppure c’erano tanti spunti per bloccare sul nascere il depistaggio. I magistrati credettero alla favoletta che Scarantino, malacarne della borgata della Guadagna, la cui reputazione criminale era pari a zero, solo in virtù di parentele mafiose fosse stato coinvolto nell’attacco di Cosa Nostra allo Stato. Secondo il presidente della Corte di Assise di primo grado Antonio Balsamo, sarebbe servito “un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il ‘metodo Falcone’”.

Così si poteva stroncare il depistaggio

C’erano tutti gli elementi per accorgersi dell’errore giudiziario. Lo urlavano in aula gli avvocati degli imputati ai quali non fu riconosciuto alcun titolo di credito. Lo misero per iscritto due pubblici ministeri, Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, prima di andare via da Caltanissetta.

I giudici del processo Borsellino ter dissero che Scarantino si stava accreditando di un ruolo che non poteva mai avere avuto. Parlarono di “parto della fantasia”. Non era né attendibile, né genuino quando raccontò di avere assistito alla riunione in cui Totò Riina decise di ammazzare Borsellino. Fu smentito da Gioacchino La Barbera e Salvatore Cancemi, pentiti dall’attendibilità granitica.

Nessuno conosceva Scarantino negli ambienti mafiosi di allora eppure con facilità riuscì a cucirsi addosso il ruolo di “uomo d’onore riservato” affiliato nell’ombra da pezzi da novanta come Salvatore Profeta, Pietro Aglieri e Carlo Greco. Alcuni di quei confronti, che avrebbero stroncato Scarantino, non sono stati prodotti nei dibattimenti, ma esibiti soltanto quando la difesa ha obbligato l’accusa a depositarli.

Già Giovanni Brusca lo aveva smentito. Così come Spatuzza, che nel ’98, quindi ben prima della sua collaborazione, disse alla Dna che Scarantino era un bugiardo. Nonostante tutto ciò Scarantino è stato creduto per una lunga stagione. Il depistaggio cui fu, ma anche la distrazione di massa della magistratura fa parte della storia.

Gli interrogativi aperti

Sul campo restano tanti interrogativi: perché Borsellino non era stato protetto, nonostante tutti sapessero che dopo Giovanni Falcone toccava a lui? Il procuratore di Palermo Pietro Giammanco decise di stipulare un’assicurazione sulla vita da un miliardo di lire, “ma non fa una piega quando nel suo ufficio si vede recapitare il 18 giugno 1992 (un mese prima via D’Amelio) – si legge nella relazione dell’antimafia regionale – una missiva anonima raffigurante una bara e l’effigie di alcuni magistrati del suo pool, tra i quali appunto Paolo Borsellino”.

Nessuno ha chiesto a Giovanni Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta e ormai deceduto perché avesse chiesto aiuto al Sisde per le indagini in maniera del tutto irrituale e anomala. Proprio uno 007 fece sparire sul luogo della strage l’agenda rossa di Borsellino che altri fantasiosi personaggi ora dicono essere stata duplicata in chissà quante copie tutte gelosamente custodite come arma di ricatto.

Trame oscure, depistaggi, buchi investigativi: tutto questo ha prodotto il “furto di verità” sulla morte di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI