Cosa nostra, la linea di successione: da Campanella a Salemi

Cosa nostra, la successione: da Campanella a Salemi

I verbali del pentito Antonio D’Arrigo, detto ‘Gennarino
INCHIESTA PICANEDDU
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CATANIA – Alcune volte si segue la regola del “sangue”. Altre dell’età o degli anni di appartenenza. La linea di successione di un clan molte volte è collegata a chi è rimasto a piede libero dopo che è scattata una retata. E così, arresti dopo arresti, un gruppo mafioso si riorganizza scegliendo il capo. E se intanto l’ex reggente è tornato in libertà dal carcere, il potere resta a chi c’era prima. Magari in attesa di un altro blitz. 

Per Picanello, grazie alle dichiarazioni di Antonio D’Arrigo (detto Gennarino) inserite nelle carte dell’ultimo blitz dei carabinieri, si è in grado di tracciare i vari passaggi al trono del gruppo mafioso che è stato del capodecina Carletto Campanella, tra i più fidati del padrino Nitto Santapaola. Una roccaforte mafiosa tra le più impenetrabili agli altri clan il rione che fa da cerniera tra Ognina e la Circonvallazione. Una cellula mafiosa dove il codice degli uomini d’onore sarebbero ancora rispettate. Almeno leggendo i verbali del pentito. 

Gennarino parte dalla sua affiliazione e racconta chi si è succeduto nel ruolo di reggente fino al 2017: “Quando entrai nell’associazione nel 2006 il gruppo era retto da Saro Tripoto e Santo Tudisco. Dopo l’arresto di Tripoto nel 2009, con l’operazione Summit (il blitz che pose fine al vertice di Santo La Causa a Belpasso, ndr), prese il suo posto Santo Tudisco e dopo l’arresto di quest’ultimo, dal 2010 è divenuto responsabile di Picanello Lorenzo Pavone che ha retto il gruppo sino al suo arresto nel 2013 (Fiori Bianchi, ndr). Il posto di responsabile del gruppo è stato quindi preso da Giovanni Comis dopo la sua scarcerazione nel 2013. Il Comis ha mantenuto la reggenza sino al suo arresto con l’operazione Orfeo del gennaio 2017”. 

Ma in questa linea di successione al comando, ci sono state delle parentesi. “Per un breve periodo tra l’arresto di Pavone e la scarcerazione di Giovanni Comis  prese la responsabilità del gruppo Nino Alecci, mentre la cassa del gruppo e la carta delle entrate e delle uscite la teneva Marco Brischetto”. Quest’ultimo è stato al centro del blitz Orfeo, le cimici hanno immortalato diverse sue conversazioni che hanno blindato l’inchiesta. “Dopo l’arresto di Comis,  per un breve periodo, hanno preso la reggenza del gruppo Giuseppe Russo, detto il giornalista o l’elegante perché è il genero di Giovanni Piacenti detto “l’elegante”, e Enzo Dato. Dopo pochi mesi, la reggenza è stata affidata a Melo Salemi,, appena lo stesso è rientrato da Risposto dove scontava l’obbligo di soggiorno”.

Nel 2016, infatti, i carabinieri del Ros – nell’ambito dell’inchiesta Chaos – hanno immortalato Giuseppe Russo durante un summit avvenuto proprio a Picanello con Marcello Magrì e Antonio Tomaselli. Questi ultimi due hanno rivestito il ruolo di reggenti di Cosa nostra catanese. 

Oltre ai reggenti, ci sono poi i responsabili delle varie carte. La “carta” del clan è quella più importante. “Nella carta – spiega D’Arrigo – sono segnati tutti i detenuti affiliati al gruppo di Picanello che percepiscono lo stipendio. Poi sono indicati gli affiliati liberi perché chi detiene la carta deve sapere chi sono gli affiliati su cui poter contare. Questa carta la teneva sempre Marco Brischetto”. Ma poi aggiunge: “Ora che Brischetto è detenuto penso che la carta sia custodita da qualcuno degli anziani”.

Ma esistono anche altri due tipi di carte. “Poi c’è un’altra carta con l’indicazione delle entrate delle estorsioni che quando io ero fuori era detenuta da Armando Pulvirenti e Franco Sansone, che sono due anziani del gruppo”. I due infatti sono stati coinvolti in un’indagine di polizia per estorsione. 

“Poi c’è la carta degli stupefacenti, detenuta da Marco Brischetto, dove venivano indicati i quantitativi di stupefacenti consegnati agli affiliati e i soldi derivanti dalla vendita dello stupefacente. L’incasso andava poi nella carta degli stipendi”, spiega ancora il pentito. 

Dopo l’arresto di Comis (nel 2017) ci sarebbe stata una crisi di liquidità. Ci sarebbero stati dei tagli degli stipendi degli affiliati e addirittura qualcuno sarebbe stato cancellato. Il depennamento automatico sarebbe stato legato addirittura alla scelta di concordare o patteggiare una pena. “Chi prende la responsabilità della carta degli stipendi non può escludere un affiliato inserito nella carta senza alcuna giustificazione e senza che l’affiliato abbia commesso un errore per cui debba essere punito. Per esempio, è possibile che chi patteggia la pena possa essere messo fuori dalla carta degli stipendi”, spiega il pentito. E poi aggiunge: ”Ultimante in carcere ho incontrato Melo Sciuto del nostro gruppo e mi ha detto che la carta degli stipendi la deteneva Franco Sansone e Sciuto non era inserito”. 

Su questa mancanza di soldi molti avevano puntato il dito nei confronti di Giovanni Comis. “Li ha fatti sparire”. Il boss però dal carcere “diceva che aveva lasciato trentamila euro”. Ma Enzo Dato e Giuseppe Russo avrebbero “fatto sapere che non avevano trovato niente”. 


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