Gli auguri di Natale, il silenzio di Riina e la strage Borsellino

Gli auguri di Natale, la resa dei conti e la strage Borsellino

Nell'eccidio di via D'Amelio è certa la paternità mafiosa, ma restano tanti dubbi

PALERMO – Nel Natale del 1991 Totò Riina decise che era giunto il momento della “resa dei conti”. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dovevano morire. Nelle motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha confermato le condanne per i boss Salvino Madonia e Vittorio Tutino e per due finti pentiti viene sancita la “paternità mafiosa” della strage di via D’Amelio.

La mafia voleva uccidere Borsellino fin dagli anni ’80, ma fu nella riunione del 1991 che arrivò il via libera. La fiducia di Totò Riina nella possibilità che venisse picconato il maxiprocesso scricchiolava di giorno in giorno. Ed in effetti le condanne sarebbero presto diventate definitive.

Nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia si è ipotizzato che sarebbe stato il patto sporco, ipotesi venuta meno in appello, ad accelerare la morte del giudice e degli agenti di scorta. Cosa Nostra avrebbe approfittato di quel forte segnale di cedimento da parte dello Stato. Se tutto ciò fosse davvero avvenuto, al di là degli esiti processuali giunti ad una conclusione differente, la ricostruzione sostenuta nel processo sulla Trattativa avrebbe in ogni caso un valore di “sostanziale neutralità ai fini all’accertamento oggetto del presente processo”.

L’uccisione del giudice Paolo Borsellino era “inserita nell’ambito di una più articolata strategia stragista unitaria”, che “rispondeva a più finalità di Cosa nostra, una finalità di vendetta che chiama in causa la vita professionale del magistrato, una finalità preventiva perseguita da Cosa Nostra in relazione alla possibilità che il giudice Borsellino divenisse capo della procura antimafia, e una finalità di destabilizzazione a esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa e a mettere in ginocchio lo Stato”.

Alla riunione del 1991 Riina ottenne quello che il boss pentito Nino Giuffrè ha definito “il silenzio del consenso”. Nessuno dissentì dal volere del sanguinario corleonese. Sulla strage restano, e resteranno forse per sempre, zone d’ombra sul coinvolgimento di soggetti esterni. Di sicuro ci sono le anomalie dei “servitori infedeli” che suggerirono ai finti pentiti le verità farlocche, accolte come oro colato dai pubblici ministeri e dai magistrati che nei processi infine crollati inflissero ergastoli ingiusti.

Anomalo fu “il coinvolgimento diretto del Sisde al di fuori di qualsivoglia logica e regola processuale nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, un coinvolgimento che aveva prodotto frutti avvelenati”. Ad esempio la nota del 10 ottobre 92 confezionata dal servizi segreti per fare credere che Vincenzo Scarantino avesse il peso mafioso per partecipare all’attentato, lui che era un delinquente di borgata dalla pessima reputazione.

Gli hanno creduto, senza sé e senza ma, senza farsi troppe domande. Anche e forse soprattutto per questo siamo lontani dalla piena verità sulle stragi.


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