09 Giugno 2015, 15:41
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PALERMO – Nove giugno 1990. Una data apparentemente scarna di significati, se non assumesse l’inconsapevole responsabilità di rappresentare la seconda giornata del Mondiale italiano. Proprio il giorno in cui fa il proprio ingresso in scena la Nazionale di Azeglio Vicini, considerata la grande favorita di quell’edizione. Si gioca allo stadio “Olimpico” di Roma contro l’Austria allenata da Josef Hickersberger, oggi tra i principali protagonisti del calcio arabo e con alle spalle anche un’esperienza alla guida del Bahrein.
Gli argomenti di discussione nel Belpaese non sono troppo diversi dai temi su cui si disquisisce attualmente: il caro benzina (il costo di un litro si aggira intorno alle 1500 lire), l’emergenza immigrazione (la prima di una serie interminabile, con i profughi in fuga dalle terre slave che sbarcano sulle coste del Brindisino), le tensioni tra gli organi istituzionali (con le tanto famose quanto provocatorie “picconate” di un Francesco Cossiga avviato verso l’ultimo biennio da Presidente della Repubblica) e il calcio. Che, come spesso avviene durante i Campionati del Mondo, gode dell’irresistibile capacità di appianare divergenze e compattare il Paese.
Eppure qualche settimana prima, le convocazioni avevano fatto discutere: favorevoli contro critici in un’Italia da poco più di 56 milioni di commissari tecnici. Occhi puntati sull’attacco: Baggio è l’astro nascente, Carnevale è reduce dallo scudetto col Napoli, Mancini e Vialli alla Samp fanno le fortune di Pezzotti e Boskov, Serena non ha bisogno di presentazioni. Poi c’è Schillaci, con appena un anno di serie A sulle gambe, seppur su buoni livelli nella Juve di Zoff. In molti pensano che sia ancora acerbo. Oramai la lista è in mano alla FIFA, per le eventuali contestazioni vi sarà modo e tempo successivamente.
Si va in campo. Vicini si affida al più classico dei moduli, il 4-4-2. In avanti giocano Vialli e Carnevale. L’Italia preme sull’acceleratore, arriva dalle parti dell’estremo austriaco in almeno sette circostanze, eppure la sfera per questione di centimetri o di ripicca non vuol saperne di finire in fondo al sacco. Il tempo scorre, manca un quarto d’ora al termine della gara. Il ct riflette sul da farsi e decide di giocare d’azzardo: “Totò, scaldati. Entri tu“. Schillaci lo guarda incredulo, poi segue le indicazioni del mister. E fa il proprio ingresso sul rettangolo di gioco, al posto di Carnevale. Siamo al minuto settantasei.
Trascorrono due giri di lancetta: gli azzurri sono in possesso della sfera, che finisce sui piedi di Donadoni. L’attuale allenatore di un Parma che rischia il fallimento alza la testa e verticalizza per Vialli. Lucagol (come verrà ribattezzato dai tifosi della Juventus) se ne va sulla destra, arriva sul fondo e mette in mezzo un pallone che, non si sa bene né il come né il perché, ammesso che ve ne siano, viene impattato alla perfezione da Schillaci: rete. Lindenberger è battuto. I 73.303 (beh, magari gli austriaci no) dell'”Olimpico” impazziscono di gioia. D’accordo, ma ci sono altri dodici minuti più recupero da giocare. E tutto torna tranquillo nel giro di poco.
A Palermo questo non accade. A Palermo la partita termina in quel momento. Suo figlio, il figlio dei quartieri poveri, il ragazzo del Cep, si è seduto al tavolo con gli dei del calcio. Cosa vuoi che importi l’esito di una sfida neppure decisiva. Il reale successo è il gol di Totò. Addirittura c’è chi improvvisa un mini corteo verso la casa natìa del bomber, simbolo di riscatto di chi riscatto non ne può avere. Perché funziona così e basta. Era il 9 giugno 1990. Una data apparentemente scarna di significati, eppure carica di un immenso valore simbolico. Sono trascorsi 25 anni. Oggi.
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09 Giugno 2015, 15:41