12 Dicembre 2013, 21:22
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A Villa Giulia c’era il leone Ciccio, che una precisissima sorvegliante chiamava col suo presunto nome esteso: Chico Portobello, se abbiamo sentito bene. Era un titolo nobiliare felino e rendeva aristocratico quel gattone scocciato che si accucciava sul fondo della gabbia, per emettere un flebile roarr da molti scambiato per un intenso ruggito. Eravamo bambini con la testa piena di Tarzan e giungle e credevamo alla scenografia del leone. Ci accostavamo alla gabbia, con infantile paura.
A Villa d’Orleans c’erano gli uccelli e c’era una rete con i cerbiatti. Avevamo la testa piena di Bambi, fotogramma per fotogramma. Quando pattina sul ghiaccio disneyano con le gambe di giunco e finisce giù con Tamburino. E il nostro cuore si infrangeva sotto la lama della morte della madre, crudelissima storia, prima del ricongiungimento col padre rigogliosamente e non metaforicamente cornuto. E gli uccelli che rammentiamo, come se potessimo chiamarli con i nomignoli che gli avevamo impartito. Ognuno di essi era un tassello che andava a incastonarsi in una zona della fantasia. Era bello tornare a casa, andare a letto dopo cena e dopo la cartella di scuole, addormentarsi con le piume e i colori ancora insediati negli occhi.
A Villa Sperlinga c’era la giostra con le macchinine. La trecentotredici di Paperino e l’astronave erano gettonatissimi, scoppiavano delle mini-risse per accaparrarsele. Le bambine montavano nell’abitacolo foggiato a mo’ di zucca. Spasimavano per Cenerentola, punto di riferimento della speranza e del canone estetico dell’evo. Come fai a non immedesimarti in una che parte col vestito sporco di cenere, poi finisce dritta dritta sposa al principe più o meno azzurro. E c’erano i pony, minuscoli schiavi del trotto, che avevano in legittima antipatia certi pargoletti di duecento chili col Cucciolone in mano. Eppure, quella stirpe di pazienti animali palermitani non smetteva di passeggiare sotto gli alberi, al sole, qualunque fosse la strazza del cavaliere pro tempore.
A Villa Giulia c’era il trenino che ricordava un’epopea western. E c’era sempre un padre che comprava la pistolina a tamburo da cow-boy che emetteva un pum pum profumato di polvere da sparo a ogni tocco di grilletto. E c’era sempre una madre che osservava da lontano i due uomini – il figlio e il padre – che giocavano insieme, non si sa chi più contento: se il figlio per l’attenzione del padre, se il padre che poteva concedersi la licenza di tornare per un po’ bambino. Anche a Villa Giulia c’erano i cerbiatti. E le anatre nello stagno artificiale. E c’era un anatroccolo marrò col bernoccolo che non beccava mai una mollica di pane, nemmeno se gliela mettevi sotto il becco.
Il leone. Gli uccelli. Il trenino. Erano le ville di Palermo, i paradisi dei bambini. E perfino adesso, mentre gli anni passano, verrebbe voglia di ritrovare un pony e chiedergli scusa. Verrebbe voglia di spezzare un panino duro. Verrebbe voglia di salire sul trenino. Ma solo per un giro senza ritorno. A marcia indietro.
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12 Dicembre 2013, 21:22