10 Gennaio 2016, 06:00
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Certo, avremmo dovuto trasformare il nostro amatissimo Livesicilia nel primo giornale della Sicilia, forte e invincibile come un eroe della mitologia greca, intransigente e disarmato come un profeta dell’Antico Testamento. Ce lo aveva chiesto lui, Francesco, nei giorni più atroci della nostra amicizia, quando la morte lo aveva già artigliato per il collo e aveva chiuso le porte a ogni speranza. Ce lo aveva chiesto senza mai cedere alla rassegnazione né alla disperazione. Anzi: furbescamente e amorevolmente spalmava sui nostri discorsi quel suo sorriso sbilenco, fatto per metà di gioia e per metà di pianto, con il quale puntualmente appannava ogni tristezza e ogni malinconia.
Ci aveva chiesto tante cose Francesco Foresta, giornalista di raffinato mestiere ed editore di brillanti intuizioni, strappato un anno fa ai suoi affetti, ai suoi sogni, alla sua giovinezza, alle sue legittime ambizioni. Ma ci aveva chiesto soprattutto di tenerci lontani dalle arroganze, dalle presunzioni e dalle placide infamie che giornali e giornalisti spesso finiscono per portare dentro ogni racconto, dentro ogni storia, dentro ogni fatto di cronaca. Professionalmente Francesco veniva da una grande scuola di libertà: mal sopportava le velleità dei cronisti che credono di avere capito tutto il bene e tutto il male del mondo; e, conseguentemente, si guardava bene dall’impartire fumose lezioni sull’obiettività dell’informazione o su quelle stucchevoli geometrie dell’equilibrio che, secondo i venerati maestri del quieto vivere, dovrebbero sovrintendere alla pura e semplice narrazione delle cose che accadono.
Più semplicemente si limitava a manifestare una smisurata fiducia nella notizia, elemento primario e insostituibile del nostro lavoro, e una naturale ripugnanza per quella banalità che, di fronte alla durezza di certi avvenimenti, riesce a trasformare ogni interrogativo in un pensiero comodo per chi scrive e altrettanto comodo per chi legge. Era forse per questo che prima di morire ci aveva pure chiesto, e Dio solo sa con quale insistenza, di non anteporre le nostre certezze ai dubbi degli altri e di non lasciarci mai incantare dalle formule magiche – come rivoluzione, come antimafia, come società civile – dispensate a piene mani, particolarmente in Sicilia, dagli impostori della politica e dai moralizzatori senza morale. Ci aveva chiesto tutte queste cose, Francesco Foresta. E ce le aveva chieste con il tono e lo sguardo di chi cerca in fondo alla strada un balsamo per alleviare il dolore di una sofferenza maligna o per allontanare la pena di una fine beffarda perché improvvisa, perché impietosa e immatura.
Per un anno noi siamo stati qui, senza di lui. Ma non siamo ancora in grado di dire se abbiamo mantenuto fede a tutte le promesse, se le nostre parole sono state scritte sull’acqua o sulla pietra, se abbiamo ricondotto in porto tutte le navi che lui aveva spinto coraggiosamente nei mari più alti. Abbiamo però la coscienza di avere fatto, con la decenza delle nostre forze, tutto quello che c’era da fare. Non ci sarebbe stato altro modo, del resto, per rendere onore alla sua memoria. La morte di un amico, ci ricorda il libro delle nostre mestizie e dei nostri rimpianti, si sconta solo vivendo.
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10 Gennaio 2016, 06:00