25 Maggio 2012, 20:32
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“Orbene non vi è dubbio che per un uomo politico di primo piano accettare consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa e, a tal fine, dargli tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento, integra gli estremi di colpa grave e costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all’evento detenzione”.
Il “politico di primo piano” è Calogero Mannino e queste sono le motivazioni con cui la Corte d’appello per le Misure di prevenzione ha respinto la richiesta di risarcimento danni per ingiusta detenzione presentata dall’ex ministro democristiano. Ventisei pagine firmate, il 17 maggio scorso, dal collegio composto dal presidente Salvatore Di Vitale e dai consiglieri Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco. Non si trattava di decidere se Mannino fosse o meno colpevole. Perché Mannino è innocente, come ha stabilito la Cassazione. I giudici non dovevano accertare se le condotte dell’ex ministro costituissero o meno reato, ma valutare se fu un errore arrestarlo. E di errore non si trattò.
Il collegio ha passato in rassegna la storia processuale del deputato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere. L’ ex ministro, arrestato nel 1995 dai pubblici ministeri di Palermo è rimasto in custodia cautelare per 23 mesi. Il tribunale di Palermo lo assolse con la formula dubitativa. Poi, la Corte d’appello ribaltò la sentenza e lo condannò a 5 anni e 4 mesi di carcere. Dopo l’annullamento in Cassazione e la celebrazione di un nuovo processo, Mannino fu assolto. Ora aveva presentato il conto allo Stato perché l’arresto lo avrebbe segnato nel fisico e nella dignità. Per sempre,
“Questa è la prova che bisogna introdurre la responsabilità personale dei giudici”, Mannino aveva commentato così la notizia del mancato risarcimento. Oggi rilancia: “Questo collegio ha ignorato le sentenze della Corte d’appello e della Cassazione. Non ho mai ricevuto voti da Vella e non so perché aveva pure i numeri di casa mia. Cosa, del resto facile, visto che erano sull’elenco. Questa sentenza è viziata da una profonda illegittimità perché ha disconosciuto l’assoluzione”.
In nessuno dei casi passati in rassegna dalla Corte d’appello per le misure di prevenzione il comportamento di Mannino viene ritenuto censurabile. Le accuse di avere intrattenuto rapporti con i fratelli Nino e Ignazio Salvo, con i mafiosi di Agrigento e Sciacca sono state smontate in primo e secondo grado. L’unico capitolo che resta in piedi, e solo dal punto di vista dell’ingiusta detenzione, è quello dei rapporti con il boss Antonio Vella. “L’unico aspetto valutabile in questa sede – scrivono i giudici – è costituito dai rapporti consapevolmente intrattenuti da Mannino con il mafioso Vella per motivi elettorali e dall’avere, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, con l’effetto di ingenerare, quindi, nella mafia agrigentina – proseguono – la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione, tanto che numerosi collaboratori di giustizia, in sede penale, hanno riferito di avere appreso, nell’ambito del contesto associativo (all’interno del quale si era diffusa la voce) che costui fosse politico disponibile per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, pur non riferendo alcunché di specifico sull’argomento”.
Vella all’inizio degli anni Ottanta sarebbe stato il tramite attraverso cui Mannino avrebbe stipulato un patto politico elettorale con Gioacchino Pennino, poi divenuto collaboratore di giustizia. I giudici di primo grado che avevano condannato l’ex ministro dissero che l’incontro a casa del politico era realmente avvenuto. La storia dell’incontro, invece, non convinse per niente i giudici d’appello. “Giova però precisare che – scrive ora il collegio che ha respinto l’istanza per ingiusta detenzione – che i giudici di secondo grado si sono limitati ad esaminare il racconto del Pennino omettendo ogni considerazione e valutazione del materiale probatorio riguardante i rapporti Mannino-Vella e, soprattutto, senza nulla dire – si legge ancora – in ordine alla conoscenza che eventualmente il Mannino potesse avere del Vella e della caratura mafiosa di quest’ultimo”. Mannino si era difeso dicendo che da Vella comprava dei libri. I giudici scrivono che Mannino conosceva benissimo Vella, a cui aveva pure dato tutti i suoi numeri di telefono: “Un rapporto di così assidua frequentazione doveva necessariamente comportare per un politico così profondamente radicato nella provincia agrigentina che egli fosse a conoscenza della mafiosità del suo elettore”. I giudici vanno oltre: “La condotta sin qui descritta, sulla quale si è peraltro formato il giudicato non essendo stata presa in esame da parte del giudice d’appello, e quindi non esclusa, costituisce comportamento extra processuale valutabile in sede di riparazione per ingiusta detenzione”.
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25 Maggio 2012, 20:32