29 Agosto 2016, 17:45
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PALERMO – Il messaggio di Libero Grassi Alessio Vassallo sembra averlo metabolizzato. Più di altri. Forse, meglio di altri. Lo ha fatto suo e la docufiction che lo vede come protagonista è il punto di arrivo, non di una carriera ancora all’inizio seppure già ricca di successi, ma di un percorso personale che inizia con i ricordi di studente e sfocia in una frase: “Anche io oggi posso dire di sentimi libero. Libero di esprimermi e di dire ciò che penso”.
“Io sono libero”, realizzato da Gianandrea Pecorelli, in onda stasera alle 21.15 su Rai Uno, ripercorre gli ultimi otto mesi di vita dell’imprenditore ucciso dalla mafia. Il suo “no al pizzo” fu un un attacco frontale alla cosa nostra che poco dopo avrebbe alzato il livello di scontro sventrando uomini e cose con le bombe. Alessio Vassallo interpreta un giovane cronista chiamato a ricostruire la morte, ma soprattutto la vita dell’imprenditore.
Quando ha sentito parlare per la prima volta di Libero Grassi?
“A scuola. È lì che ho appreso le prime notizie. Se ne parlava ancora pochissimo. Poi, ho avuto la fortuna di partecipare a ‘La vita rubata’ (film per la televisione andato in onda su Rai Uno nel 2008, ispirato all’omicidio di Graziella Campagna,ndr) e da lì ho iniziato a studiare il fenomeno mafia nei particolari. Ho approfondito la figura di Libero Grassi nel lavoro teatrale ‘Dieci storie proprio così’ scritto da Giulia Minoli ed Emanuele Giordano. Pina Maisano e Alice Grassi (moglie e figlia di Libero, ndr) sono venuti in camerino a trovarmi. È stato molto bello. Oggi a 33 anni posso definirla una delle esperienze più significative della mia vita.”.
Facciamo finta che adesso abbia davanti una classe di studenti. Come descriverebbe la figura di Libero Grassi?
“Non servono molte parole. È stato Il primo che ha avuto il coraggio di denunciare pubblicamente la mafia, il primo a dire che il pizzo esisteva davvero. Mi pare già fondamentale. E poi…”
E poi?
“C’è una cosa che mi ha sempre colpito di lui. Ha rifiutato la scorta, ha preferito consegnare quattro copie delle chiavi della sua impresa al prefetto, al questore, al sindaco e alla polizia. Voleva che difendessero la possibilità di fare impresa, non la sua persona. Oggi il suo rifiuto della scorta suona come uno schiaffo morale per chi usa l’auto blu per andare allo stadio o al ristorante. Come fanno certi politici”.
All’inizio ha detto che quando era ancora studente si parlava poco di mafia. E ora?
“Sono sorpreso e orgoglioso di come oggi venga affrontata la tematica. Grazie allo spettacolo e al film ho girato nelle scuole. Gli insegnanti sono i nostri moderni eroi, impegnati spesso in progetti extrascolastici, senza neppure essere pagati. Grazie a loro i giovani conoscono Libero Grassi, Peppino Impastato, Graziella Campagna e tutte le altre vittime innocenti. I siciliani sono i ragazzi più preparati. È stato fatto un grande lavoro”.
E a Roma, città dove lei vive, si parla di mafia o resta un fatto di ‘casa nostra’?
“Se ne parla tantissimo. C’è un movimento giovanile molto forte. Finalmente si è preso coscienza del fatto che l’antimafia non è una cosa epica che non ci riguarda. Viviamo tutti la mafia quotidianamente, nelle strade rotte che non vengono riparate o negli appalti pilotati. Ed è bene non dimenticarlo, specie in una stagione in cui, almeno in Sicilia, c’è il ‘cessate il fuoco’”.
Si parla tanto di mafia, dunque. Non avverte il rischio che se ne parli troppo? Il dibattito sull’opportunità di certe produzioni televisive e cinematografiche divide parecchio. Lei da che parte sta?
“Serve tutto. Bisogna pensare alla potenza di una fiction. Ne usufruiscono tutti”.
Non ha mai avuto la sensazione nel suo ambiente che la mafia e l’antimafia servissero anche per fare cassa?
“Il pericolo c’è. Nelle produzione che ho sposato io, e non lo dico per tirare acqua al mio mulino, non lo ho avvertito. È vero, però, che ci sono tante produzioni romanzate per dare spettacolo. Stiamo attenti a mitizzare i personaggi. Bisogna raccontare una storia con il massimo della preparazione”.
Ci dia un consiglio: come si distingue una buona fiction da una che non lo è?
“Da come ti alzi dal divano. Se qualcosa dentro di te è cambiato, allora va bene. Se è nata la curiosità di capirne di più, la fiction o lo spettacolo hanno raggiunto l’obiettivo. Diverso è se si tratta di un tv movie o di una serie che ti mette allegria solo perché ascolti delle battute in siciliano. Non bisogna spettacolarizzare, ma raccontare. Noi attori siamo dei cantastorie moderni. E serve raccontare tutto, anche il punto di vista del male, penso a Gomorra. Non tanto perché il male di per sé ha sempre affascinato, ma per conoscere tutti i lati del fenomeno”.
Stasera appuntamento a Palermo, a Casa professa, per la proiezione della docufiction. Anche per un palermitano ‘emigrato’ a Roma è un bel momento.
“Soprattutto. Invito i palermitani a venire. Ci saranno i familiari di Libero Grassi. Può essere, deve essere un bel momento”.
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29 Agosto 2016, 17:45