Senza quid né voti: Angelino lascia | Lunga storia di scandali e poltrone

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07 Dicembre 2017, 13:46

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PALERMO – “Se devi acquistare una poltrona rivolgiti a un leader del settore”. Così gli attori palermitani Ficarra e Picone pochi mesi fa liquidavano beffardamente la figura di Angelino Alfano. Ministro di tutto e di tutti. Misirizzi sempre in piedi. Fino a ieri. Quando ha annunciato: “Non mi ricandido e non farò il ministro”. Un fatto storico, a suo modo. Quella in effetti, era diventata una certezza che faceva a pugni con l’algebra. Mentre scendevano, anzi crollavano sotto ogni soglia possibile i consensi del suo partito, lui accumulava giorni su una poltrona ministeriale. Saranno più di tremila di seguito, quando tutto sarà finito. Nemmeno Giulio Andreotti riuscì a mettere insieme tanto: la Giustizia, gli Interni e anche gli Esteri. Con Berlusconi, Letta, Renzi e Gentiloni. La destra, il centro, la sinistra. Per lui che si inventò un “Nuovo centrodestra” che viaggiava contromano rispetto alla logica, alleandosi anche con gli ex Ds. I comunisti, insomma, che facevano tanto orrore, quando il Cavaliere si innamorò di lui e lo colse, giovanissimo, nel giardino dell’Assemblea regionale siciliana per trasformarlo nel più precoce Guardasigilli della storia d’Italia.

Da lì, quella che non si può tanto definire una “scalata”, quanto una mirabile resistenza, fondata sulla portentosa capacità di restare comunque in piedi. Anzi, seduto. Su una poltrona o sull’altra. Anche a costo, come gli rimprovereranno molti suoi ex fedelissimi di Sicilia, di mandare al macero le storie politiche e lo stesso consenso di tanti amministratori locali di quello che poi Alfano rinominò “Alternativa popolare”. Non accorgendosi che proprio molti dei suoi avevano iniziato a cercarla, l’alternativa: allo stesso Alfano però. Lasciato su due piedi per rientrare nella casa madre del centrodestra. Alle ultime Regionali è stata tutta una fuga di portatori di voti: dal messinese Nino Germanà al palermitano Pietro Alongi, per non parlare di chi fu il vero fedelissimo in Sicilia: l’ex coordinatore regionale Francesco Cascio. Che si è arreso e a malincuore ha dovuto lasciarlo anche lui. Mentre il partito di Alfano, nonostante le fusioni fredde con Casini si sgonfiava al punto da meritarsi persino le stilettate dell’ex premier Renzi: “Se dopo anni che sei stato al governo, hai fatto il ministro di tutto, non riesci a prendere il 5 per cento, è evidente che non possiamo bloccare tutto”.

Alfano sempre in piedi, nel frattempo però è rimasto da solo, o quasi. E la fine era già nell’immagine rivelata da un deputato che fino a poco tempo fa correva con lui e per lui: “Arrivano in Sicilia con gli elicotteri. Scendono, ma a terra non trovano nessuno che li accolga”. E il plurale usato dall’ex alfaniano non è casuale. Perché la pervicacia “istituzionale” di Alfano ha tenuto al riparo solo pochi tra i più stretti alleati, che spesso lo hanno ripagato con qualche guaio. Giuseppe Castiglione, ex presidente della provincia di Catania, finito dentro l’inchiesta sul Cara di Mineo; la cafaludese Simona Vicari costretta a restituire un rolex saltato fuori da un’inchiesta sui trasporti marittimi in Sicilia. Un orologio sfortunato quello, sempre pronto a segnare l’ora di un nuovo scandalicchio, come quello che portò un “suo” ministro, Maurizio Lupi, a dimissioni simili (quella volta il regalo andò al figlio), mentre un altro fedelissimo dello stesso Lupi, Marcello Di Caterina, avrebbe ricevuto lo stesso gioiello, così come emerge dalla stesa inchiesta sui traghetti.

Ma ovviamente, Alfano c’ha messo del suo. Gli ultimi anni sono puntellati da polemiche e incarichi, scandali e conferme. Solo per restare nella legislatura in corso, nel 2013 esplose il caso di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov, prelevata nella sua casa di Roma dalle nostre forze dell’ordine, alla fine di maggio del 2013. Ma Alfano “non sapeva”. Poco dopo, le critiche arriveranno anche dai sindacati di polizia, a causa dei ritardi nella nomina del successore del capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli: due mesi di pericoloso “vuoto”, prima della nomina di Alessandro Pansa.

Ma Angelino cade sempre in piedi. Anche quando viene attaccato direttamente da una procura. Quella di Bergamo, per la precisione. E la colpa di Alfano è tutta in un tweet, quello col quale il Ministro, bruciando forze dell’ordine e magistrati, diede notizia dell’arresto dell’allora ancora presunto assassino della quattordicenne Yara Gambirasio. Per Alfano, Massimo Bossetti però era già un assassino. Altro che presunzione di innocenza. “Era nostra intenzione – la bacchettata in quelle ore del procuratore Francesco Dettori – mantenere il massimo riserbo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale esiste la presunzione di innocenza”.

Nel 2014, mentre Alfano è agli Interni, l’ordine pubblico sembra vacillare persino di fronte all’esuberanza di tale Genny a’ Carogna. È la finale di Coppa Italia del 2014 tra Fiorentina e Napoli e la capitale è “ostaggio” degli stessi ultrà che che nelle ore precedenti erano stati coinvolti nella rissa che portò all’uccisione del tifoso Ciro Esposito. La stessa città che fu devastata anche dai tifosi del Feyenoord in occasione di una sfida con i giallorossi in Champions League.

Ma Alfano resse, anche lì conquistando alcuni mesi dopo gli Esteri, come premio per l’ennesima sconfitta politica, in occasione del referendum costituzionale. Una nomina che riuscì persino a mettere d’accordo, nell’ironia più accesa, due giornali “nemici” come Repubblica e Il Fatto quotidiano. Mario Calabresi parlerà di “meriti ignoti” e di “passaggio incomprensibile”, mentre Marco Travaglio lo dipinse sarcasticamente come un “noto poliglotta cosmopolita”. Riportando alla memoria un impietoso video nel quale Angelino si giustificava per un ritardo a una importante riunione internazionale pescando in un inglese non proprio fluente: “De uaind agheinst as”. Il vento contro.

Ma non per lui. Che nonostante i venti delle polemiche è sempre lì. Mantenendo la poltrona del momento. E, anzi, vedendole proliferare in famiglia. E il riferimento non è tanto alle consulenze ottenute dalla moglie alla Serit, la società regionale che riscuoteva le tasse in Sicilia, quanto nella vicenda del fratello Alessandro assunto in società legate a Poste Italiane, con stipendio da 160 mila euro annuo. Mente il padre di Angelino, stando alle intercettazioni di una assistente del faccendiere Raffaele Pizza, avrebbe fatto piovere sull’azienda un’ottantina di curriculum. “Barbarie”, ha protestato Angelino, facendo riferimento alle condizioni di salute del padre. E adesso alla famiglia Angelino ha detto di voler tornare. Non lascia la politica, ma lascia il parlamento. Perché nel frattempo quel delfino che per il Cavaliere non aveva il “quid”, forse si è accorto di non avere più nemmeno i voti.

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07 Dicembre 2017, 13:46

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