Anche io ho avuto paura | sulla strada della morte

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18 Febbraio 2013, 17:30

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I fiori, adesso, sono troppi. E quell’asfalto somiglia al lugubre palcoscenico di un festival di morte. La Palermo-Sciacca è un filo di ferro. Teso, sul baratro. Una striscia sottile di brividi che non ammette distrazioni, indebolimenti. L’ho percorsa decine (ormai credo centinaia di volte). Ho avuto paura, in qualche occasione. Ho perso il controllo, e sono stato fortunato. Ho sorpassato come un imbecille, e mi è andata bene. Ho superato di gran lunga i limiti, solo perché qualcuno mi attendeva. O perché io mi attendevo di trovare qualcuno. Già, perché per me, che della cittadina termale sono originario, quella denominazione è sempre stata, in fondo, l’intestazione di un biglietto d’andata e ritorno. Come se in mezzo, come se in quei cinquanta-sessanta minuti di strada, non ci fosse nulla.

E invece, lo ricordo ancora. Era una giornata di sole. Che si sarebbe tramutata nel triste sfondo di una canzone di Guccini. Lo ricordo ancora. Una di quelle immagini che ha ancora il potere di spogliarti. Di regalarti brividi che credevi dimenticati. Di stringerti lo stomaco, e costringere le gambe a un tremolìo durato a lungo, quel giorno. Eravamo, più, o meno, all’altezza di Camporeale. La prima avvisaglia, come al solito, è la fila. Le auto che rallentano improvvisamente. Qualcuno fa in tempo a piazzare le “quattro frecce”. La polizia c’è già. C’è l’ambulanza. Ma c’è anche un lenzuolo. Ci sarebbe anche l’auto. Ma non è più un’auto. È già la metafora premonitrice di quella tragedia: è uno scheletro. Sembra abbastanza. Ma non lo è. Quello che ho visto, nel primo momento, è un “semplice” incidente. Un “normale” morto sull’asfalto. Un fatto triste, da raccontare appena giunto a destinazione. Con quella punta di ciniscmo che è di tutti, in proporzioni differenti. Quell’accenno di cattiveria che è propria del “sopravvissuto”. Di quello che si rende conto, per un attimo, che quel giorno non è toccata a lui. Sembra, insomma, tutto normale. La normale tragedia di quella strada maledetta.

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Ma a volte, i quadri hanno il potere di animarsi. Una sindrome di Stendhal, al contrario. In cui vieni sopraffatto dall’orrendo. Non avevo pensato a quello. Non credevo che l’avrei visto. Ero incolonnato. Avanzavo a passo d’uomo dentro la mia vettura, a pochi metri dalla vittima. Un’auto si ferma nell’altra corsia. Scende una donna. Qualcuno le va incontro. L’afferra. Lei si divincola. Cade per terra. Urla. Urla. Urla. Voci che invadono la valle dello Jato, e il Belice che non è distante. Che corrono tra i vitigni e i casolari abbandonati. Che rimbalzano giù dai ponti, dai viadotti. Che ruotano vorticosamente tra gli svincoli maledetti.

Non è più un normale incidente. È un dramma. Che – ecco, solo adesso me ne rendo conto – è dentro ogni “normale” incidente, frutto d’ogni “normale” sorpasso, d’ogni normale colpo di sonno, d’ogni manto stradale bagnato, curva pericolosa, eccesso di velocità e di alcolici, o, semplicemente, di sfortuna. Non è più un normale incidente. Nonostante quella scena sia stata replicata, da allora, troppe, troppe volte. Fino a tramutare la strada verso casa (qualunque posto sia “casa”, ormai) in quel cimitero vivo. In quel luogo dai silenzi violentati. Dove ogni chilometro è un numero di roulette. È un rosso e un nero. Uno Stendhal capovolto.

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18 Febbraio 2013, 17:30

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