15 Dicembre 2014, 11:06
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La tragedia di Santa Croce Camerina del 29 novembre scorso mi ha molto scosso e angosciato. Per prima cosa la tragica fine della vita di un bambino, un essere piccolo, indifeso. Poi la tragedia che ha colpito la madre, innocente o colpevole che sia, una tragedia enorme abbattutasi su un essere anch’esso fragile all’apparenza. Una tragedia abbattutasi sul paese, Santa Croce Camerina, abbattutasi sulla Sicilia intera e sull’Italia tutta. Tragedia nella quale sono entrati a gamba tesa tutti i mezzi di comunicazione, il loro credo è: “Tutto fa spettacolo”. Il paese, l’opinione pubblica, prima schierata a difesa della madre, poi in seguito al maturare degli eventi diventati all’unisono colpevolisti.
Le incertezze, le assicurazioni di innocenza, si sono trasformate in certezze, in prova di assoluta colpevolezza. Questo repentino mutamento del pensiero comune mi ha ancora di più angosciato e disorientato e per questo motivo, approfittando del privilegio di essere parlamentare, mi sono recato a Catania, al carcere di Piazza Lanza. Sono stato accolto dai comandanti delle forze di Polizia Penitenziaria, dal responsabile dell’organizzazione e dalla direttrice, tutti molto gentili e disponibili mi hanno accompagnato nella visita di tutta la struttura, reparti maschili e reparti femminili, le aule di insegnamento e i laboratori professionali. In un’aula un’insegnante di italiano e inglese faceva lezioni a un gruppo di extracomunitari ai quali insegnava a leggere e scrivere. Ho trovato una struttura ben diretta e in ottimo stato di conservazione e manutenzione. I reparti insalubri, molto vecchi erano chiusi in attesa di finanziamenti per la ristrutturazione. Finita la visita, per ultimo siamo andati nel reparto dei detenuti controllati a vista. Nel reparto degli uomini ho incontrato un tizio quasi settantenne che aveva per molto tempo malmenato la moglie e aveva tentato di violentarla e stuprarla. Appariva come un essere insignificante e smarrito, non era intuibile la carica di violenza che l’aveva condotto in carcere.
Nel reparto delle donne ho incontrato Veronica Panarello, la madre accusata dell’uccisione del figlio, il piccolo Loris. Si trovava in una cella spoglia, guardata a vista attraverso un cancello di ferro chiuso a chiave da una guardia carceraria, una donna. Ci ha aperto la porta di ferro, la direttrice ha chiesto alla reclusa se permetteva che entrassimo per un colloquio, mi ha qualificato e lei ha accettato la visita. Ai miei occhi, su una brandina addossata al muro con addosso una coperta di lana giaceva un corpicino tremante e rannicchiato. Ha sollevato la coperta e ha fatto cenno di alzarsi, sotto la coperta indossava i vestiti, una maglietta, un pullover e un paio di pantaloni. Ai piedi indossava un paio di calze a righe orizzontali. Le ho chiesto di rimanere seduta. Capelli lisci, quasi sulle spalle, due labbra esili serrate, due grandi occhi scuri, quasi neri, sbarrati nel vuoto, a tratti rivolti a noi.
Le prime parole che ha pronunciato sono state: “Sono qua dentro, innocente. Nessuno mi crede, nessuno mi vuole credere. I giornali non riportano tutta la verità. Io sono innocente ma nessuno mi vuole credere.” A quel punto la direttrice la interrompe dicendo che nei colloqui con i parlamentari non può parlate dei motivi per i quali si trova rinchiusa. Annuisce e si zittisce. Io le chiedo: “Come stai, come ti senti?” Lei di rimando: “Come posso stare qua dentro con il peso che ho?”. “Fai un sorriso”, le chiedo. Mi zittisce: “Come posso sorridere con il peso che ho?”. Non so se coscientemente o no sente addosso a sé l’enorme peso della tragedia che l’ha colpita, nella quale si trova imbrigliata. “Sei andata a scuola? Cosa hai studiato?”. “Ho frequentato la scuola d’arte, al secondo anno mi sono fermata. So disegnare, mi piace molto disegnare”. Chiedo alla direttrice se posso inviare un album da disegno, delle matite, dei colori. All’unisono la direttrice e il comandante delle polizia Penitenziaria mi rispondono: “Sì, purché la matite e i colori siano con il corpo di legno.” Rivolgendomi a Veronica chiedo se le farebbe piacere ricevere un album da disegno e dei colori. A quella mia richiesta fa un cenno di assenso, gli occhi si illuminano e accenna un timido sorriso, gli occhi si spalancano ancora di più. Io dico: “Hai visto che hai sorriso”. La bocca si chiude, le labbra si serrano, il sorriso si trasforma in una smorfia di dolore. Le chiedo: “Ti posso abbracciare?”. La direttrice annuisce, è permesso abbracciarla, lei dice: “Sì, grazie”. L’abbraccio, la stringo a me, tento di trasmettere quel poco di calore umano del quale sono capace. Il suo corpo vibra, trema. L’abbraccio è veloce, la saluto, le stringo la mano, le dico: “Coraggio, fatti forza!”.
Che coraggio può trovare chiusa tra quatto mura. Lei si professa innocente. Io non so cosa pensare. Se innocente speriamo che venga subito prosciolta, non sarebbe una conquista un innocente in galera e un assassino libero. Meglio cento colpevoli liberi che un innocente in prigione. Se è colpevole che sconti la sua pena sperando che sia trasferita in un carcere che abbia la stessa umanità che ho trovato nel carcere di Catania. Speriamo che faccia un percorso rieducativo che la metta a confronto con le realtà dure e amare della vita. L’ho lasciata, le mani tese quasi a chiedermi: portami con te.
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15 Dicembre 2014, 11:06