26 Gennaio 2021, 06:28
3 min di lettura
PALERMO- Il momento, forse, più duro cade quando tutto quello che era caldo diventa ghiacciato. Quando l’amore ha il solo nome della rabbia e del risentimento. E come potrebbe essere diversamente? Sei davanti al corpo esanime di tuo figlio, colui che avrebbe dovuto offrire la giusta sepoltura a un padre o a una madre. Eppure, sei tu che seppellisci lui. Perché l’orologio del tempo si è fermato e il cuore ha subito un guasto irreversibile.
E’ lì che arriva la dottoressa Elsa Cannistraro (nella foto), psicologa del Centro regionale trapianti e psicoterapeuta della famiglia. Non a suggerire, non a indirizzare. A fornire l’ascolto che cerca di scrivere la sintassi dell’indicibile. Ed è lì, in quel frangente supremo, che una madre o un padre possono decidere di donare gli organi di un figlio, perché riviva, perché rinasca, da una sua parte, nel tutto di una persona diversa.
La dottoressa Cannistraro c’era mentre i genitori di Antonella, la bimba di dieci anni della Kalsa, decidevano di essere generosi. C’era qualche giorno prima per la perdita, sempre a Palermo, di una bambina di nove anni. E sulle parole segrete di storie tanto dolorose è bene che cada il velo del riserbo. Adesso racconta il suo percorso che, al Centro regionale trapianti, dura da undici anni.
“Ho iniziato con un mio progetto per le terapie intensive, con il sostegno psicologico alle famiglie, ai malati e agli operatori. Ero all’ospedale ‘Cervello’ e, subito, mi sono occupata di Ginecologia e Ostetricia, dove c’erano madri che avevano subito esperienze tragiche. Poi sono passata, appunto, alla terapia intensiva, elaborando un percorso di sostegno. E’ stato importantissimo anche per i medici e gli infermieri che, finalmente, hanno avuto l’opportunità di alleggerire il carico che portavano. Ora sono qui, al Centro”.
Ma bisogna, prima di proseguire nel filo della storia, pensare alle parole. Alle parole che suturano ferite profonde, che giungono in luoghi considerati inaccessibili, dove si sedimenta la cura che non è soltanto applicazione di un protocollo tecnico, ma scambio di umanità, relazione che scende in campo contro la solitudine acerrima che non sa nemmeno riconoscere se stessa.
La storia, dunque: “La donazione di organi – dice la dottoressa Elsa – avviene in un passaggio delicatissimo -. Noi non diamo consigli, non spetta a noi scegliere. Ascoltiamo il racconto dei cari che non ci sono più. Si racconta come erano, quali erano i loro sogni. E c’è chi decide di donare. Nel caso di genitori che hanno vissuto l’esperienza della morte del figlio, magari giovanissimo, tutto viene tremendamente amplificato, come è normale che sia. Sono momenti molto stancanti e toccanti. La prima reazione è il gelo, lo choc. Come potrebbe essere altrimenti? Quando si dà l’assenso alla donazione, cambia tutto, come per una determinazione che aiuta a vivere e a fare rivivere. Si accende la luce. Un sì modifica la prospettiva e rimette in gioco la speranza. Sono cose che lasciano il segno anche in noi operatori che concediamo spazio alla condivisione di emozioni. E le lacrime non mancano mai. Mi vengono in mente le parole dei genitori di Antonella: ‘Abbiamo scelto di dire si alla donazione perché nostra figlia avrebbe detto si, fatelo. Era una bambina generosa. E visto che non potevamo averla più con noi, abbiamo ritenuto giusto aiutare altri bambini’”.
Sono attraversamenti al limite estremo. Chi c’era, non c’è più, però potrebbe esserci e camminare con altre gambe e con altri occhi. E’ il ponte sospeso tra la vita tolta e la vita regalata.
La dottoressa Elsa ricorda: “Anni fa, mi occupai di un ragazzo morto in un incidente stradale. Madre e padre dissero il loro sì e aspettavano l’espianto con gli amici. Quando dalla sala operatoria uscirono i medici con la borsa frigo, ci fu un urlo liberatorio con l’applauso, quasi un’esultanza da stadio”. Il suono della vita che non si arrende mai.
Pubblicato il
26 Gennaio 2021, 06:28