29 Agosto 2013, 06:11
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PALERMO- Ad aprire per primo la breccia nel muro apparentemente invalicabile dell’omertà mafiosa, e a denunciare i suoi estortori, fu Libero Grassi. Un uomo divenuto simbolo di quella dignità e di quella forza che deriva dalla correttezza morale di cui solo la gente onesta è dotata. Sebbene ancora oggi siano tantissimi i commercianti vessati dall’egida del racket, ogni anno molti altri imprenditori decidono di procedere su quel solco tracciato da Libero Grassi vent’anni fa; segno inequivocabile di come il bene riesca, ancora una volta, a travalicare i confini del tempo e della morte. A monte di quella decisione storica, rivestì un ruolo importante anche Armando Vaccarella, amico di Libero Grassi e capo redattore del Giornale di Sicilia fino al 1995. Fu proprio Vaccarella, oggi scomparso, il primo a raccogliere l’appello dell’imprenditore, e ad affidare ad un giovane cronista, il direttore di Livesicilia Francesco Foresta, la stesura di quella intervista-denuncia.
In che ambito nacque l’amicizia con Libero Grassi?
“Il grande rapporto di stima che mi legava a Libero nacque agli inizi degli anni ’80, quando entrambi militavamo nel Partito Repubblicano”.
Che ricordo ha di Libero Grassi in quel contesto?
“Era una gran persona. Estremamente attiva, un idealista eccezionale che amava stare a contatto con la gente. Il lavoro e la sua fabbrica erano per lui una ragione di vita, senza andare mai alla ricerca di contributi pubblici”.
Come maturò la decisione di scrivere quell’articolo?
“Una sera di gennaio del 1991 Libero mi telefonò, chiedendomi di incontrarci il mattino seguente. Il giorno dopo andai alla Sigma e lui mi ricevette nel suo ufficio, in uno scantinato. Mi raccontò di aver ricevuto la telefonata di un certo geometra Ansalone che gli aveva chiesto il pagamento di 50 milioni di lire per le famiglie dei detenuti. Libero quindi mi disse di aver riattaccato il telefono, ed aver avvertito subito i carabinieri”.
Le sembrò scosso o impaurito da quella telefonata?
“Per niente. Anzi mi sembrò più determinato nel portare avanti quella causa di cui si era fatto carico. Pensi che durante il nostro incontro mi invitò a seguirlo in strada e una volta lì mi indicò il palazzo dal quale sospettava lo potessero tenere sott’occhio. A quel punto ovviamente lo esortai a rientrare in ufficio, e li concordammo l’articolo. Non era una lettera, anche se il titolo del pezzo poteva lasciarlo intendere”.
Grassi riteneva d’essere pedinato…
“Sicuramente era tenuto d’occhio. Mi raccontò che a seguito della sua denuncia, i carabinieri andarono alla Sigma, e dopo che i militari uscirono dalla fabbrica arrivò un’altra telefonata. Era ancora una volta il geometra Ansalone che gli disse: “Cornuto, hai chiamato i carabinieri…”.
La pubblicazione di quell’articolo cambiò l’atteggiamento dell’imprenditore?
“Libero rimase spiazzato dalla solitudine che lo cominciò a circondare. La sua delusione fu grande quando si accorse che l’associazione degli industriali lo stava lasciando solo, ed anzi lo aveva richiamato perchè con quell’atteggiamento rischiava di compromettere la sicurezza di tanti altri imprenditori che fino a quel momento avevano pagato regolarmente il pizzo, senza ribellarsi. Per il resto continuava regolarmente la sua vita, la sua attività, non avvertì neanche l’esigenza di maggior protezione”.
Non comprese il pericolo che incombeva su di lui?
“Non credo non avesse compreso il pericolo, piuttosto riteneva che denunciando la vicenda, in quel modo, con quella forza, avrebbe sollevato automaticamente l’attenzione su di lui da parte delle istituzioni, e degli altri imprenditori che sperava cominciassero a denunciare, così come aveva fatto lui. L’eco della trasmissione Samarcanda in un certo senso contribuì ad alimentare quella speranza”.
Come seppe dell’assassinio di Libero Grassi?
“Purtroppo non ero a Palermo quando accadde. Naturalmente il mio pensiero andò subito ai mesi precedenti, a quel nostro incontro, e alla sua denuncia. Mi resi conto che evidentemente la filosofia che armò i killer fu quella del colpiamone uno per educarne cento”.
Ci sono riusciti?
“Libero ha tracciato le linee guida della strada da seguire. Nonostante sia lunga e difficile da percorrere, e molti imprenditori ancora oggi non trovino il coraggio di denunciare, la nascita di associazioni antiracket come Addiopizzo dimostra che cambiare in meglio è possibile e che la filosofia vincente è un’altra. Per cui, no, non ci sono riusciti”.
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29 Agosto 2013, 06:11