17 Luglio 2016, 06:01
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PALERMO – Il braccio di un uomo si allunga per afferrare un sacchetto. È la conferma che nella masseria di Montagna dei Cavalli, a Corleone, c’è qualcuno. Quel qualcuno è Bernardo Provenzano. La sua latitanza, durata 43 anni, finisce l’11 aprile del 2006.
Cosa fu, una variazione sul copione degli indicibili accordi che ne hanno consentito la fuga infinita? Da un lato, in questi giorni, si ricorda, anzi si celebra l’operazione di polizia che lo portò in manette. Dall’altro si sostiene che Provenzano godesse di protezione ad alti livelli. Il padrino corleonese, secondo un’impostazione ancora al vaglio dei giudici, ma azzoppata da alcune pesanti assoluzioni, fu colui che portò avanti la seconda parte della Trattativa fra la mafia e lo Stato. Avrebbe tradito Riina in cambio di un salvacondotto per girare indisturbato senza che nessuno lo cercasse.
Questo il succo della ricostruzione portata dai pm in aula al processo nei confronti del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu e in quello sulla Trattativa. Il 12 marzo 1992 viene ucciso Salvo Lima. Sarebbe la prima reazione della mafia alla batosta del maxi processo, quando gli ergastoli diventano definitivi. Poi, l’eccidio di Capaci. L’ex ministro Calogero Mannino teme per la sua vita e chiede ai carabinieri di trattare. E siamo ai contatti fra Mario Mori del Ros e Vito Ciancimino.
Mori e il capitano Giuseppe De Donno volevano stanare i latitanti oppure fermare la mano dei killer? Ci fu un tentativo di salvare i politici condannati a morte, a cominciare da Mannino? Borsellino, sempre secondo la Procura, capisce che lo Stato tratta e si mette di traverso. Sarà ammazzato pure lui, come Giovanni Falcone. A quel punto, e siamo già nel ’93, Ciancimino viene posato e l’uomo della trattativa diventa Marcello Dell’Utri. Finisce in galera Totò Riina, venduto, dicono i pm, da Provenzano. E Binu diventa impunito. Ha un salvacondotto per muoversi liberamente tanto che nel 1995 – e di questo si parlava nel processo a Mario Mori e Mauro Obinu – nonostante una soffiata i carabinieri non lo avrebbero arrestato a Mezzojuso. Una ricostruzione nella quale, però, sono “saltati” due pezzi importanti per la Procura visto che Mannino (in primo grado) e Mori (anche in appello, parliamo del processo per la mancata cattura a Mezzojuso) sono stati assolti.
Dalle cronache di questi anni si è appreso che le indagini che avrebbero portato all’arresto di Montagna dei Cavalli nel 2006 erano iniziate otto anni prima, quando si attivò il gruppo di poliziotti agli ordini dell’allora capo della Catturandi della Squadra mobile di Palermo, Renato Cortese. Sarà lui ad acciuffare il boss e a comunicarlo ai magistrati che coordinavano le indagini: il capo della Procura Pietro Grasso, l’aggiunto Giuseppe Pignatone, e i sostituti Marzia Sabella e Michele Prestipino.
Il salvacondotto di Bernardo Provenzano era ormai scaduto oppure non è mai esistito? Erano usciti di scena coloro che avevano preso accordi con il boss, oppure chi aveva trattato con il padrino corleonese, alla fine, se ne infischiò del patto siglato? O ancora, mentre qualcuno trattava c’era chi perdeva il sonno per mettergli le manette? Che Provenzano abbia goduto di chissà quali agganci e protezioni resta confinato alle ipotesi processuali, frutto anche dei racconti di alcuni pentiti (Stefano Lo Verso è uno di questi) e dichiaranti (su tutti Massimo Ciancimino) se non addirittura alla dietrologia. La cronaca racconta, invece, tutta una serie di passaggi investigativi vincenti.
Gli hanno tolto il respiro. Hanno arrestato gli uomini dei clan di Villabate e Bagheria, coloro che avevano aiutato Provenzano a raggiungere la clinica di Marsiglia già nel 2003 per l’operazione alla prostata e che lo proteggeranno nell’ultima fase della latitanza. Nessuna copertura istituzionale, ma solo quella di un gruppo di uomini fidatissimi e accorti consentì a Binu di ricorrere alle migliori cure mediche. Hanno arrestato Giorgio Riolo, il carabiniere che passava le soffiate sulle indagini al re della sanità privata Michele Aiello e attraverso lui giungevano a Provenzano.
Nel 2005, dopo che il blitz Grande Mandamento azzerò un gruppo amplissimo di fiancheggiatori del capomafia, il padrino restò solo e malato. A quel punto Pignatone e i poliziotti della Mobile ebbero l’intuizione di tornare a guardare nella cerchia ristretta dei parenti e delle persone che frequentavano la sua abitazione alla periferia di Corleone. Ed è da quella abitazione che un giorno videro uscire un parente, Giuseppe Lo Bue. Aveva in mano un sacchetto della spazzatura. Non sarà l’ultimo. Uno di questi passò dalla sua macchina a quella del padre Calogero. Un giorno i due lo Bue si incamminarono, fino a quando Calogero non scese dal suo mezzo per salire su quello di Bernardo Riina. La zona si riempì di sofisticati sistemi di sorveglianza a distanza. La macchina di Riina fu localizzata a Montagna dei Cavalli. E si arrivò al giorno della mano che prende il sacchetto e all’arresto. Provenzano finì in cella. Ci resterà fino alla fine e sempre al 41 bis. Quella fu un’operazione di polizia vera.
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17 Luglio 2016, 06:01