Associazioni, affari e parti civili| Quando l’antimafia è un brand

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31 Ottobre 2018, 06:00

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PALERMO – In principio fu Capo d’Orlando. Nella cittadina messinese nacque, per volere di Tano Grasso, la prima associazione antiracket italiana. Era il 1990. I commercianti si ribellavano al giogo mafioso. Nessuno allora, neppure il più inguaribile degli ottimisti, avrebbe immaginato il proselitismo dei successivi anni. È stato un bene, ma ogni medaglia ha il suo rovescio e si è perso il controllo. L’antimafia è diventata un brand, un marchio di fabbrica che in alcuni casi è servito soltanto per accedere a fondi e contributi. Ha ragione Luigi Cuomo di Sos Impresa quando ricorda che “il lavoro delle associazione antiracket, dei soci e dei loro dirigenti, è fondato sui principi inscindibili ed inviolabili di volontariato e gratuità”.

Ieri è finito in carcere Salvatore Campo, presidente dell’Associazione Siciliana Antiestorsione (Asia) di Aci Castello, nel Catanese. I commercianti si rivolgevano a Campo per dire no al pizzo, ma per ottenere l’aiuto dell’associazione e accedere ai contributi sarebbero stati costretti a versargli una percentuale. Vittime del racket erano e vittime del racket sono rimaste.

Asia è una delle quarantatré associazioni iscritte negli albi delle prefetture. Cioè quelle che hanno superato un rigoroso screening di affidabilità. Evidentemente, nel caso di Campo, l’affidabilità è venuta meno. Piccole realtà sono proliferate accanto alle associazioni di categoria, come Confesercenti, Confcommercio e Confindustria.

Quante hanno svolto e svolgono attività antiracket seria sul territorio? Il nome di Campo si unisce a quelli, certamente di spessore superiore, di Antonello Montante e Roberto Helg, “bruciati” dalle inchieste. È l’intero movimento antiracket che necessità di un profondo ripensamento. Ci sono mille altre associazioni che restano fuori dagli albi delle prefetture ma che entrano nei processi. Anzi, il loro unico scopo è quello di costituirsi parte civile. Per accreditarsi nel movimento antimafia hanno scelto i nomi di chi dalla mafia è stato ammazzato.

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E così le aule dei Tribunali siciliani si sono popolate di comparse che alzano la mano, si fanno registrare dai cancellieri e si associano alle richieste altrui. Contano solo le parcelle. Certo le cose sono cambiate. Un tempo importanti studi legali incassavano fino a tre milioni di euro all’anno, ad esempio, per rappresentare la Regione. Oggi si devono accontentare di cifre molto più basse qualora riescano a superare il vaglio dei giudici, che via via, e meno male, diventa sempre più rigido. Almeno in Sicilia dove la soglia di attenzione è alta, meno in altre parti d’Italia.

È giunto il momento di rivedere il meccanismo. Il pizzo si continua a pagare. A volte sotto forma di favori e lavoro. Sono diminuite le cifre, ma non i metodi di imposizione. Di sicuro è cambiato il peso delle denunce. Prima non solo erano un atto di sfida che i boss non potevano accettare – in pericolo c’era la supremazia sul territorio, tanto che le reazioni erano veementi come nel caso dell’assassinio di Libero Gassi -, ma le denunce erano pure strettamente necessarie per la tenuta dei processi. Ora magistrati e forze dell’ordine raccolgono tanto di quel materiale investigativo che la convocazione dei commercianti vessati è l’ultimo atto investigativo. Serve a confermare quanto è già stato ampiamente ricostruito. Eppure l’avere accompagnato un imprenditore verso la denuncia resta uno dei requisiti fondamentali per essere accreditati nell’elenco delle buone associazioni antiracket che ricevono anche qualche migliaio di euro dalla Regione. Forse l’elenco delle priorità va rivisto.

 

 

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31 Ottobre 2018, 06:00

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