Di Matteo e il rischio attentato | Quando i pentiti diventano un rebus

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15 Marzo 2015, 06:00

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PALERMO – Difficile distinguere il vero dal falso, figuriamoci dal verosimile. Mestiere complicato ai giorni nostri quello del pm antimafia. Specie quando ci si deve misurare con un guazzabuglio di minacce, lettere anonime e pentiti che alzano il dito.

Le indagini sui progetti di attentato ai danni del pubblico ministero Antonino Di Matteo ne sono un esempio. E qui la faccenda si fa serissima perché in ballo c’è anche, e forse soprattutto, un lato umano che non può e non deve passare in secondo piano. Perché un pm, svestita la toga, è innanzitutto un uomo. Sentirsi dire in faccia di essere bersaglio dei mafiosi deve essere devastante. “Vado avanti”, ha sempre detto Di Matteo, tenendo la barra dritta, attorniato dalla solidarietà dei colleghi dell’ufficio: “L’intera Procura si identifica nel collega, bersaglio di un progetto omicidiario che consideriamo rivolto indistintamente contro tutti i magistrati dell’ufficio”.

L’ultimo ad aggiungere notizie sull’attentato è stato il pentito di Barcellona Pozzo di Gotto, Carmelo D’Amico. “Lo vogliono morto a tutti i costi. Ce l’hanno con lui perché ha dato filo da torcere a Cosa nostra”, ha raccontato ai pm messinesi e allo stesso Di Matteo che era andato ad interrogarlo nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia di cui avrebbe appreso dei particolari tra il 2012 e il 2013. A parlargliene sarebbe stato il capomafia di Pagliarelli Nino Rotolo con cui condivideva le ore di socialità in carcere. Poi, ha aggiunto che lo scorso aprile alcuni boss siciliani rinchiusi nel penitenziario milanese di Opera aspettavano “da un momento all’altro” la notizia dell’attentato.

La tempistica è importante. D’Amico ha iniziato a collaborare in agosto. Le notizie sull’attentato ha detto di averle apprese in aprile e le ha messe a verbale il 10 febbraio scorso, quando ormai – ma potrebbe essere solo una coincidenza – erano già note le dichiarazioni di uno che pentito non lo è ancora, ma che aspira a diventarlo: Vito Galatolo. Lo stesso Galatolo che i primi giorni del novembre scorso non aveva ancora deciso di pentirsi, ma chiese di potere parlare con Di Matteo per liberarsi di un macigno. Volle mettere in guardia il magistrato perché il progetto dell’attentato era ancora in piedi. Era tornato libero, infatti, Vincenzo Graziano, indicato tra coloro che avrebbe partecipato al summit in cui i boss palermitani ricevettero da Matteo Messina Denaro l’ordine di morte. Galatolo indicò pure i luoghi dove l’esplosivo sarebbe stato custodito. Niente, nonostante le ricerche a tappetto, non è stata trovata traccia dei 200 kg di tritolo che Galatolo così descriveva: “L’esplosivo, che io vidi personalmente in occasione di una mia presenza a Palermo per dei processi, era conservato in dei locali all’Arenella nella disponibilità di Graziano Vincenzo ed era contenuto in un fusto di lamiera e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra questi bidoni vi era uno scatolo di cartone con all’interno un dispositivo in metallo della grandezza poco più piccola di un panetto”.

I pubblici ministeri ritengono Galatolo un pentito attendibile. “Soggettivamente credibile ed intrinsecamente attendibile”, lo ha definito pure il Tribunale del Riesame di Palermo, confermando l’arresto di Graziano. Ci sono, però, dubbi, almeno da parte dei pm che coordinano la caccia al latitante, sul fatto che Messina Denaro possa avere davvero scritto ai boss palermitani. Galatolo, dunque, potrebbe essere stato raggirato magari da qualcuno che credeva che per uccidere un magistrato bisognava fare credere di avere l’appoggio dell’ultimo padrino latitante.

Per descrivere il clima in cui si muovono gli investigatori ci viene in soccorso, ancora una volta, la recentissima cronaca. Pochi giorni fa alcuni bambini dissero di avere visto un furgoncino pieno di armi a pochi passi da un luogo frequentato da Di Matteo e da altri magistrati. Delle armi, cercate a tappeto come il tritolo, nessuna traccia tanto che qualche investigatore si è spinto ad ipotizzare che si trattava degli arnesi, comprese delle pistole sparachiodi, conservate nel furgone di una ditta che stava ristrutturando una villetta. I risultati delle indagini, gli ultimi come i precedenti, sono stati trasmessi ai magistrati di Caltanissetta competenti sulle minacce e i rischi che corrono i colleghi palermitani. Nel frattempo a Palermo bisogna mandare avanti la baracca, distinguendo il vero dal falso e pure dal verosimile perché se c’è una cosa che la storia, purtroppo, ci ha insegnato è che la mafia è capace di regolare i conti con il piombo e il tritolo.

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15 Marzo 2015, 06:00

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