02 Agosto 2020, 06:54
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Con questo articolo inauguriamo la nuova rubrica di Enzo Mignosi, giornalista palermitano, già firma del Corriere della sera, che ha raccontato Cosa nostra negli anni più caldi delle cronache mafiose.
Lo abbiamo visto mille volte dal vivo e in foto, abbiamo scrutato gli occhi piccoli e malvagi e l’espressione truce che ne identifica i tratti, violenti oltre ogni limite. La cronaca ce lo ha consegnato come l’uomo delle bombe di Firenze, il killer richiamato in servizio negli anni di piombo per gli omicidi che dovevano fare scruscio (il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il giornalista Mario Francese, il vicequestore Boris Giuliano). I giornali hanno descritto e raccontato in centinaia di pagine la sua carriera criminale lunga oltre mezzo secolo, cercando di sviscerare anche i dettagli più insignificanti della sua esistenza vissuta con il controcanto di pistole e kalashnikov. Tutto conosciamo di Leoluca Bagarella detto Luchino, l’ultimo dei corleonesi ancora in vita, ormai quasi ottantenne, sepolto sotto una montagna di ergastoli eppure irriducibile, figlio e fratello di mafiosi, una vita da assassino fianco a fianco con il cognato Totò Riina.
Ma c’è un aspetto curioso che a suo tempo è sfuggito alla cronaca, o almeno, che è passato sotto silenzio. Perché fino al 1995, anno del suo arresto, ricercatissimo dalle polizie di mezzo mondo ma in libera circolazione nel cuore di Palermo, Luchino non trascorreva le sue giornate chiuso in una stanza tra strumenti di tortura e di morte, impegnato a organizzare stragi e attentati, come avrebbe voluto la solita oleografia spicciola. No. Quando non andava in giro passando con disinvoltura sotto gli sguardi inconsapevoli dei carabinieri di scorta all’allora vice procuratore Guido Lo Forte, suo ignaro dirimpettaio, Bagarella stava nella sua casa di piazza Tosti, piegato sui libri, immerso nella lettura come un topo di biblioteca. Alla sua destra una pila di volumi, alla sua sinistra un’altra. Accanto un lumetto con un fascio di luce proiettato sulle pagine aperte.
Sì, il killer corleonese amava leggere. Tanto. Tantissimo. E sapete cosa? Libri di mafia, la sua grande passione. Divorava letteralmente saggi e romanzi che negli anni Ottanta, quando a Palermo si contavano almeno duecento morti l’anno, riempirono le librerie della città per narrare gli orrori di quella guerra senza fine. Non ci fu giornalista di nera e di giudiziaria che non scrisse almeno un libro. Scrissero anche sociologi, storici, magistrati, avvocati, professionisti che a vario titolo dovettero occuparsi delle trame sanguinarie dei corleonesi, decisi a conquistare Palermo e i suoi traffici miliardari facendo scempio di centinaia di vite umane.
I pentiti che tanto tempo trascorsero al suo fianco, hanno insistito sulla predilezione di Luchino per l’intera produzione letteraria di quegli anni. Tutto è passato sotto i suoi occhi: analisi sociologiche, ricostruzioni storiche, testimonianze e memorie dei protagonisti dell’antimafia, libri impegnati e racconti leggeri. “Ci mandava a rastrellare le librerie – hanno spiegato i mafiosi che stavano alla sua corte – e tornavamo sempre con qualche novità editoriale”.
Ma un titolo, uno in particolare, è sempre rimasto al centro del suo cuore. E quale, se non “Il padrino”, il capolavoro di Mario Puzo, poi rappresentato al cinema nella saga a tre puntate, che celebra le gesta criminali di don Vito Corleone, capomafia di vecchio stampo più vicino a Gaetano Badalamenti che a Salvatore Riina. Ma poco importa. Sapere che tutto il mondo parlava di lui, di loro, accresceva il suo ego convincendolo di aver comunque conquistato un posto nella storia. E pazienza se con tutti gli omicidi portati sulla coscienza, le generazioni future avrebbero raccontato non di un eroe popolare ma di una spietata macchina da guerra che ignorava del tutto il sentimento della pietà.
Luchino leggeva e studiava. Sì. Studiava politica. Il corleonese si teneva informato comprando almeno due quotidiani al giorno ma soprattutto guardando la tv, telegiornali e talk show che gli permettevano di indugiare sui politici del momento, sui leader di partito e sulla pletora di cortigiani che un passaggio sullo schermo finivano regolarmente per conquistarlo. Mica gli piacevano i politici, sia chiaro. Piuttosto credeva fosse utile conoscerli e capirli, casomai fosse necessario prendere contatti con qualche deputato, ministro o assessore di casa nostra nel supremo interesse dell’organizzazione. Credeva tanto all’utilità della politica che una volta pensò perfino di fondare un partito, Sicilia Libera, un progetto poi abortito perché, si disse, “al potere erano finalmente arrivati gli amici”.
Insomma, non si può dire che Luchino trascorresse una latitanza noiosa. E neppure frugale. Quando andava in giro si imbottiva letteralmente di denaro. Mazzette di grosso taglio distribuite tra le tasche della giacca e dei pantaloni. Addosso non portava mai meno di dieci milioni di lire. Del resto, uno che aveva la mania delle grandi firme poteva non circolare con adeguato corredo di denaro? L’armadio di casa custodiva solo abiti degli stilisti di grido. Perfino le mutande erano firmate Versace. Spendeva e spandeva, Leoluca Bagarella. Ma solo per sé e per sua moglie, l’adorata Vincenzina Marchese. Agli amici mai un regalo. Era ricco come un nababbo e avaro come uno scozzese. Per il matrimonio, celebrato in pompa magna con un sontuoso ricevimento a Villa Igiea, si disse che spese oltre quindici milioni. Quattro soltanto per il vestito della sposa. Che dopo il suicidio della donna, seguito a un lungo periodo di depressione, Luchino custodì come una reliquia sacra.
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02 Agosto 2020, 06:54