18 Luglio 2013, 13:10
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PALERMO- Sono pesanti le condanne ai presunti boss che comandavano a Porta Nuova e Bagheria. Il giudice per l’udienza preliminare Lorenzo Matassa ha condannato tutti e sette gli imputati: Calogero Lo Presti (14 anni), Tommaso Di Giovanni (16 anni), Nicola Milano (8 anni), Francesco Paolo Putano (10 anni, in continuazione con un’altra condanna come chiesto dall’avvocato Maurizio Savarese), Gaspare Parisi (14 anni), Gabriele Buccheri (10 anni), Antonino Zarcone (12 anni).
Pene pesanti, dunque, visto che sono state pure “scontate” di un terzo come previsto per chi sceglie di essere giudicato con il rito abbreviato. Il Gup ha accolto le richieste dei pubblici ministeri Maurizio Agnello, Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco. In un solo caso il giudice non ha accolto la ricostruzione dell’accusa che riteneva Nicola Milano, difeso dall’avvocato Michele Giovinco, uno dei capi promotori dell’associazione mafiosa alla guida del clan che domina nella parte vecchia della città di Palermo.
Una ipotesi caduta davanti al giudice, a differenza di Lo Presti e Di Giovanni per i quali, infatti, sono scattate le pene più alte. Sono indicati come i boss di Porta nuova, mentre Zarcone viene piazzato dagli inquirenti alla guida del clan di Bagheria. Parisi, che per un periodo è stato l’amante della pentita Monica Vitale, avrebbe diretto la famiglia di Borgo Vecchio. Ai suoi ordini avrebbe agito come uomo del racket Gabriele Buccheri. Di pizzo, ma per la famiglia di Palermo centro, sarebbe responsabile anche Francesco Paolo Putano.
Il Gup ha riconosciuto 100 mila euro di risarcimento danni al Comune di Palermo e 10 mila ciascuno alle altri parti civili: centro studi Pio La Torre, Confindustria Palermo, Solidaria, Sos Impresa, Coordinamento delle vittime di estorsioni, usura e mafia, Associazione Antiracket delle piccole e medie imprese di Palermo, Confcommercio e il centro Padre Nostro. La questione si era aperta quando, il 25 febbraio scorso, il giudice Lorenzo Matassa aveva accolto l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dagli avvocati Giovanni Castronovo e Giuseppina Candiotta, difensori di Tommaso Di Giovanni.
Al centro della controversia c’era il ruolo di Matassa, che nell’ambito dello stesso procedimento, aveva vestito i panni prima di giudice per le indagini preliminari e poi dell’udienza preliminare. In pratica lo stesso magistrato, dopo avere deciso di mandare a giudizio gli imputati, si era ritrovato a doverli giudicare in abbreviato. Lo stesso Matassa, in verità, aveva chiesto al presidente del Tribunale di astenersi perché riteneva, di fatto, di essere entrato nel merito dell’accusa in fase di indagini preliminari. Ed invece era arrivato l’ordine di andare avanti. Da qui la richiesta degli avvocati Castronovo e Candiotta e la conseguente trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per valutare la questione di legittimità costituzionale.
E la Consulta aveva stabilito che il dibattimento dovesse procedere davanti allo stesso Gup, che dopo tre giorni e tre notti di camera di consiglio ha condannato gli imputati.
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18 Luglio 2013, 13:10