Quegli anni, Berlusconi e Dell’Utri | Il romanzo infinito delle stragi

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16 Settembre 2017, 13:27

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Se non è già accaduto, accadrà presto. Silvio Berlusconi, magari in compagnia di Marcello Dell’Utri, sarà iscritto nel registro degli indagati per le stragi di mafia. Si dovrà di nuovo difendere dall’accusa di essere il mandante esterno degli eccidi del ’92-’93.

L’invito del sostituto procuratore Antonino Di Matteo, da poco approdato alla Direzione nazionale antimafia, sarà accolto. Mica si può fare finta di non avere ascoltato i dialoghi carcerari di Giuseppe Graviano, che tirano in ballo il Cavaliere. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia per questo è stata l’urgenza”, diceva Graviano al suo compagno di socialità, il camorrista Umberto Adinolfi, mentre passeggiava nel carcere di Ascoli Piceno. E aggiungeva: “Lui voleva scendere però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Insomma, sarebbe stato Belusconi ad invocare le stragi per spianarsi la carriera politica.

Di Matteo e gli altri magistrati del pool Trattativa hanno già trasmesso le registrazioni alle Procure di Firenze e Caltanissetta. L’obbligatorietà dell’azione penale obbligherà, appunto, a riavvolgere il nastro della storia. Sì, perché tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati nel capoluogo toscano per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili a Firenze, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri – allora indicati come Alfa e Beta – finirono sotto accusa della Procura di Caltanissetta per il presunto ruolo nella strage in cui furono massacrati Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Inchieste che si sono chiuse con un nulla di fatto.

Quella nissena, in particolare, fu archiviata su richiesta della stessa Procura (l’atto era firmato dal procuratore Tinebra e dai sostituti Giordano e Leopardi) che aveva avviato le indagini su input dello stesso Di Matteo, il quale oggi ricorda che il pentito Salvatore Cancemi “in quattro udienze affermò che nel contesto temporale del giugno ’92, Riina si assunse la responsabilità di uccidere Paolo Borsellino, che in quel momento citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare ora e in futuro e rassicurava che fare quella strage sarebbe stato un bene per tutta Cosa Nostra… a seguito di queste dichiarazioni io e il pm Tescaroli chiedemmo al procuratore Tinebra che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri”.

Secondo il pm della Trattativa, convocato su sua richiesta in Commissione dopo l’imbarazzo provocato dalle dichiarazioni di Fiammetta Borsellino, “ci sono ancora molti spunti emersi nel corso delle indagini nei processi sulla strage di via D’Amelio, sui quali bisognerebbe ancora indagare”. Tra i tanti spunti che indica ci sono pure le datate dichiarazioni di Cancemi che erano parte integrante della prima indagine archiviata.

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Non era stato tenero il gip Giovanbattista Tona che su Cancemi scriveva: “All’inizio egli negò di essere uno dei componenti della commissione provinciale e negò pure di aver preso parte a queste due stragi; successivamente ha ammesso di aver concorso a quella di Capaci, continuando a negare qualsiasi responsabilità nell’attentato al dottore Borsellino. Solo nel 1996, e dopo che altri collaboratori lo avevano chiamato in causa, ha ammesso di aver preso parte pure alla strage di via D’Amelio”.

Cancemi ci mise tre anni – si era pentito, infatti, nell’estate del 1993 – per ammettere le sue colpe. Si giustificò invocando l’attenuante del travaglio psicologico, “che gli rendeva difficile d’un tratto uscire dalla mentalità di cosa nostra” e superare la “vergogna ad ammettere alcune cose”. Si paragonava, d’altra parte, a “una vite arrugginita che ci vuole del tempo per svitarla”. E sul Cavaliere? “La genericità e la mutevolezza delle sue dichiarazioni a carico di Berlusconi e Dell’Utri – scriveva il giudice – potrebbe infatti spiegarsi, anziché con il tentativo di offrire agli inquirenti una notizia in suo possesso ridimensionando il suo ruolo nella fase deliberativa della strage, con il diverso tentativo – mal riuscito – di introdurre elementi fantasiosi e non facilmente verificabili”.

Dinanzi ai giudici della Corte di Assise di Caltanissetta che lo condannarono per la strage di via D’Amelio, Cancemi motivò il ritardo delle sue dichiarazioni perché “i discorsi” di Riina su “queste persone che lui aveva nelle mani” (e cioè Berlusconi e Dell’Utri), “che lui ci diceva che erano quelli che è un bene per cosa nostra” lo preoccupavano, lo frenavano e lo inducevano a pensare che se avesse fatto i nomi sarebbe potuto accadere “qualcosa di grosso”. La stessa Corte di Assise disse, però, che la storia della paura era una balla visto che Cancemi “prima ancora di confessare la sua partecipazione alla strage, aveva già indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata l’effettiva motivazione del riserbo. Egli infatti già in relazione alla strage di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da Ganci Raffaele, mentre si recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il Riina aveva incontrato persone importanti”.

Di Matteo auspica oggi che si riparta di nuovo da Cancemi – e cioè da una vite che non si può neppure svitare da sola, visto che nel frattempo il pentito è deceduto – per cercare le colpe di Berlusconi e Dell’Utri su cui a lungo si è indagato senza trovarle. Come non si sono trovati eventuali altri mandanti esterni, tirati in ballo ogni qualvolta un’indagine non produca risultati (una sorta di parafulmine del mistero per tutte le stagioni giudiziarie”. Proprio come si è arenata l’indagine voluta da Pietro Grasso quando guidava la Direzione nazionale antimafia. Quella affidata al sostituto Gianfranco Donadio finì per essere un’indagine parallela, una guazzabuglio dannoso per le procure distrettuali titolari dei fascicoli e che non erano state informate. I numeri sono enormi: 600 richieste di informazioni alla polizia giudiziaria, 119 colloqui investigativi, fra cui 56 collaboratori di giustizia, decine e decine di verbali, senza raggiungere alcun risultato. In compensò, però, il materiale di Donadio, grazie ai vasi comunicanti della giustizia, ha alimentato il lavoro di alcuni pm. A Reggio Calabria, ad esempio, ora si sostiene che ci sia stata una “trattativina” calabrese oltre la trattativa principale, la cui esistenza si tenta di dimostrare nel processo di Palermo. Il modello va applicato anche a Graviano: prima ancora di conoscere il peso e l’utilità delle intercettazioni, forse neppure genuine, del capomafia nel processo Trattativa si postula che possano servire altrove contro Belusconi e Dell’Utri.

 

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16 Settembre 2017, 13:27

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