25 Novembre 2014, 06:30
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PALERMO– Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella sono fermi nei ricordi. I compagni di scuola defunti rimangono sospesi nell’eterna giovinezza. Vai avanti, li superi, li guardi, sul limite che hai oltrepassato. Li avverti lontani e vicinissimi, come se fossero figli. Nei ricordi, il fotogramma iniziale della fermata di piazza Croci, a Palermo, lì dove c’era il liceo classico ‘Giovanni Meli’, è in bianco e nero. Il filmino del 25 novembre procede piano, punteggiato dall’effetto neve che offuscava le immagini nei vecchi televisori. Poi si riempie. In salotto, avevamo un vecchissimo apparecchio Telefunken, un francobollo per starci appiccicati nelle serate di Coppa delle Coppe: tecnologia tedesca degli anni ’80. Se ripenso alla strage del ‘Meli’, la rivedo laggiù, a ventinove anni di distanza, in un quadratino di luce opaca.
Eravamo più di trenta, quelli della quarta E, alla fermata di piazza Croci, il venticinque novembre del 1985. Aspettavamo l’autobus numero quattro che avrebbe riportato un plotone di ragazzi a casa. In lontananza suonavano le sirene. Era normale a Palermo, nella città della sfida alla Cupola, la capitale del filo spinato e dei giudici sotto scorta. Antonio, della sezione F, rivale in amore, propose una tregua: “Torniamo a piedi?”. L’aria soffiava calda. La ragazzina dai capelli rossi che entrambi corteggiavamo non filava né l’uno né l’altro. Perché mostrarsi ostili? “D’accordo”. Ci avviammo. Abitavamo dalla parte opposta della città, ma a Palermo splendeva l’estate novembrina. Facevamo ancora i bagni a mare e avevamo quattordici anni. La prima ambulanza la notammo con sufficienza, sulla via del ritorno. Anche questo era normale. La seconda e la terza suscitarono un po’ di curiosità. Non troppa. Eravamo occupati a dare fiato ai polmoni e a raccontarci bugie.
Antonio era un patito di Elvis Presley. Spacciava per sue le canzoni di “The Pelvis”, contando sulla mia ignoranza. Strillava: “Be Bop a Lula”, con atteggiamento intimidatorio. Aveva lo stesso sarto di Fonzie. Io ascoltavo Beethoven e poco altro. Fischiettavo l’incipit della Quinta (“Bo bo bo bom”) e sostenevo di averla composta la sera prima. Antonio della sezione F se la beveva sempre.
Ci separammo all’inizio di via Ausonia, allora famosa per un bar con i cornetti a pezzi stracciati. Il mio compagno di viaggio suonò al citofono con circospezione. Suo padre, un militare inflessibile per orari e ritardi, gli infliggeva reclusioni punitive, col divieto di uscire per mesi interi. Io tornai verso piazza Europa che aveva e conserva una chiesa a forma di barca al centro del suo villaggio. Girai l’angolo. Un’occhiata al portone col numero tredici. Fu in quel momento che vidi mio padre. Era professore al ‘Meli’. Aveva preso qualche giorno di malattia per la tosse che lo tormentava. Stava armeggiando con lo sportello della sua Ritmo. Mentre tentava di infilare la chiave e non ci riusciva, studiai il suo abbigliamento. Indossava vestaglia e pantofole. I capelli spettinati dicevano che si era appena alzato dal letto. Sembrava un sogno, come accade quando le voci che senti vengono da fuori, anche se ti appartengono. Finalmente incrociammo gli sguardi.
Se avessi un Telefunken, punteggiato di neve, rivedrei i suoi occhi adesso. Le pupille affiorate di un uomo, mio padre, che stava ricominciando a sognarmi dopo avere temuto la separazione. Da allora noi non smettemmo di sognarci reciprocamente mai più.
La Tv in soggiorno trasmetteva l’accaduto: “Strage al liceo ‘Meli’. Una macchina di scorta ai giudici Guarnotta e Borsellino è piombata sulla fermata, lì dove i ragazzi prendono l’autobus”. In quell’istante, centinaia di genitori impazzirono di paura. Si precipitarono a piazza Croci, con qualunque mezzo o indumento. Volevano riabbracciare i figli. A due famiglie non fu concesso di ricongiungersi. Nicola Siciliano, operaio della Keller, rintracciò le spoglie di Biagio, quattordicenne, della quarta D, in ospedale. Lo pianse con sua moglie, Maria Stella. Carlo Milella, questore della polizia, pregò con Francesca per la guarigione di Maria Giuditta, diciassettenne della terza B. ‘Titta’, come la chiamavano i genitori, spirò dopo una settimana.
Si accendono luci improvvise che affollano la scena. Il grido di Nicola Siciliano: “Dio, ridammelo! Ridammi mio figlio!”, nella camera mortuaria dell’ospedale Civico. Le lacrime di Stella, di fianco a suo marito. Il silenzio di Carlo e di Francesca Milella, in piedi, al funerale di ‘Titta’. Il preside Aldo Zanca, piegato in due, alla fermata dell’incidente, con una mano sul petto e una a reggere gli occhiali. C’è un’altra figura. Un signore coperto dal cappotto, nella camera mortuaria, paralizzato dal senso di colpa. Il giudice Paolo Borsellino.
Gli studenti stavano dalla parte dei giudici. Stavano con Falcone e Borsellino. Erano gli alleati più sinceri. L’altra città, Palermo degli adulti, li avrebbe abbracciati soltanto dopo morti. La cronaca raccontava una contraddizione che spaccò il movimento studentesco. Due compagni, tra gli amici dei magistrati, erano morti a causa di un’auto di scorta ai magistrati. Qualcuno propose di andare al Comune e “bruciare tutto”. Qualcun altro spingeva per un un assalto alla caserma dei carabinieri più vicina o a Palazzo di giustizia, per rappresaglia. Il rappresentante d’istituto, Costantino Visconti, mantenne la calma. Parlò con gli scalmanati. Sedò la rabbia in una tumultuosa assemblea. A dibattito placato, si nascose dietro una colonna della palestra. E vomitò.
Biagio Siciliano era un ragazzino timido. Ogni mattina, all’alba, saliva sulla corriera a Capaci per non arrivare in ritardo. Il primo giorno, aveva sbagliato classe, finendo nell’aula della nostra quarta E, al piano terra. Durante la lezione, non aveva spiccicato una sillaba, mentre il professore declinava una cantilena in latino: “Rosa, rosae, rosae”. Noi, nel frattempo, pescavamo parole sotto il banco. Chi leggeva la ‘Gazzetta dello sport’. Chi sfogliava un libro. Chi si incantava per una domanda del poeta Villon incontrata casualmente, sfogliando l’antologia: “Dove le nevi dell’altro anno?”. Maria Giuditta Milella aggiornava un diario che è diventato inestimabile dopo la sua morte. Il contenuto lo ha svelato Francesca, la mamma, pubblicando un libro ‘Voglia di risposte’ (è stato recentemente ripubblicato). Le ultime parole della diciassettenne che voleva bene al centrocampista della Nazionale, Giancarlo Antognoni (così c’era scritto sul diario) sono conservate sulla lavagna della sua stanza: “Scrivere Renata tel sabrina stud greco”. Accanto alla lavagna, in quella stanza, nell’appartamento luminoso di fiori e vetrate, su una stradina di siepi di gelsomini non lontana dalla scuola, c’erano un giradischi con la sua puntina, un acquarello di Holly & Hobby, un panda di peluche che Titta smarrì da piccola e miracolosamente ritrovò. A ruoli invertiti, toccò al peluche, attendere il ritorno della bambina smarrita, riempiendosi di polvere sullo scaffale.
Non è stato dato il tempo necessario alla polvere dell’incidente del ‘Meli’, non lo è stato permesso di posarsi sul nostro lutto, subito spazzato via. Palermo ha lavato in fretta il sangue dall’asfalto di piazza Croci. E’ accaduto per l’imbarazzo di una strage provocata materialmente dai buoni che si difendevano dai cattivi. C’è una targa arrugginita. Solo il liceo ricorda ancora, ogni anno.
Alzando il volume del televisorino, si può riascoltare, nitida, la voce di Francesca Milella, la mamma di Giuditta che, anni dopo, sfogò il suo dolore: “Il lunedì precedente al 25 novembre Titta non era andata a scuola. Era venuta da me, in pigiama, con le maniche che le coprivano le mani. Aveva detto: ‘Ho paura. E’ come se ci fosse qualcosa che mi vuole distruggere’. Le avevo permesso di restare a casa. E’ per questo che quel lunedì ho lasciato che uscisse, anche se la sera prima avevamo fatto tardi. Ero ancora a letto. Titta mi ha dato un bacio sulla guancia. Volevo dirle di restare. Poi ho pensato che una settimana prima aveva saltato le lezioni. Sono stata zitta. Mi sono sentita invadere da una felicità pazzesca come se fosse la prima volta che mi baciava”.
La voce di Maria Stella Siciliano: “Quella mattina, Biagio era nervoso. Non mi diede nemmeno un bacio di saluto: ‘Mamma, quando tornerò… Nella camera mortuaria dell’ospedale Civico, mentre piangevo, incrociai due occhi che mi fissavano, quasi bruciandomi per l’intensità dello sguardo. Era il giudice Borsellino”.
I padri scrivevano e ritagliavano. L’operaio Nicola Siciliano raccolse un’intera rassegna stampa, riunendo gli articoli di giornale sull’accaduto. Un quaderno di fogli con annotazioni a margine, chiuso da un titolo: “E’ morta anche Maria Giuditta” e un colpo di pennarello fucsia a sottolineare la notizia. Il questore Carlo Milella scrisse una lettera al presidente della Repubblica, Francesco Cossiga: “Il 25 novembre 1985, Maria Giuditta, la nostra unica figlia, all’uscita del Ginnasio Liceo ‘G. Meli’ di Palermo, dove frequentava la terza B, veniva coinvolta in un incidente. Ventotto persone, fra cui molti studenti in attesa alla fermata dell’autobus, venivano falciati da un’auto di scorta a un magistrato, lanciata a velocità pazzesca. Non sussisteva alcuno stato di necessità con i caratteri propri della concretezza e dell’attualità di pericolo, per cui la velocità folle si risolveva nella causa primaria della tragedia…”.
La tragedia non è mai finita. Il nostro amore è stato consumato, ma questo dolore persistente altro non è che amore che si rinnova. Possiamo amarvi, compagni di scuola in bianco e nero, anche se la lavatrice del tempo ha strizzato, centrifugato e sbrindellato i nostri sogni. Possiamo amarvi, conservarvi nel nostro cuore-televisorino con l’antenna orientata sulla memoria, come quello che trasmetteva con i puntini le semifinali di Coppa delle Coppe. Per azionarlo, basta afferrare la manopola e girarla. Tutto torna al punto di partenza. Tutto ricomincia. Tornano i genitori che sono appassiti, per avere subito il seppellimento dei figli, i padri con la tosse e le dita intrecciate su una chiave di macchina, i vicini di viaggio che non conoscevano la Quinta di Beethoven. Torna il silenzioso Biagio che non baciò suo madre, ma non era Franti, era Garrone in un minuto di rabbia, un dolce ragazzino smarrito.
Tornano le parole di Titta, nell’ultimo giorno della sua vita: “Scrivere Renata tel sabrina stud greco”. Le parole sotto il banco, di gesso ormai sbiadito sulla lavagna. Le parole di cristallo, sciolte come neve al sole.
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25 Novembre 2014, 06:30