“Studiammo un attentato a Grasso | Parlo grazie a Rita Borsellino”

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11 Dicembre 2013, 12:00

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 MILANO –Riina intorno a novembre del 1992 mi disse che dovevamo dare un altro colpetto per farli tornare e pensammo così di colpire Piero Grasso”. Lo ha rivelato il pentito Giovanni Brusca deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia e alludendo alla decisione di Riina di colpire nuovamente, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, per ottenere qualcosa dallo Stato. “Preparammo la chiave per aprire un tombino vicino casa della suocera di Grasso a Monreale – ha aggiunto -. Dovevamo metterci l’esplosivo. Eravamo arrivati a buon punto. Mi ero procurato il telecomando con i catanesi. Poi per un problema tecnico desistemmo e l’argomento si chiuse”. Brusca ha poi raccontato che “gli attentati del ’93 erano finalizzati a fare tornare i contatti di Riina a trattare perché dopo il papello i rapporti si erano interrotti in quanto le richieste che avevamo fatto erano state ritenute eccessive”. Il collaboratore di giustizia ha riferito di avere saputo da Riina che le richieste fatte dopo la strage di Capaci attraverso il papello erano troppe e che gli era stato detto che gli avrebbero potuto concedere solo alcune cose. Ma il boss, arrabbiato, si sarebbe rifiutato di accontentarsi.

L’ARRESTO DI RIINA
Brusca ha poi parlato di Bernardo Provenzano:
“Era a conoscenza del covo in cui Riina si nascondeva prima di essere catturato”. Nella ricostruzione dell’accusa il boss Provenzano, che aveva avviato una trattativa con pezzi dello Stato, avrebbe consegnato agli investigatori Riina suggerendo, tramite Vito Ciancimino, al Ros dei carabinieri, dove il padrino di Corleone fosse nascosto. “Inizialmente – ha proseguito – si pensava che a farlo arrestare fosse stato Di Maggio. Poi ci vennero i primi dubbi dopo il suicidio del maresciallo Lombardo che in una lettera scrisse di avere avuto un ruolo nella cattura di Riina. Allora sono cominciati vari retropensieri e abbiamo collegato Lombardo a un suo confidente, Francesco Brugnano, che a sua volta era vicino all’area provenzaniana”.

Il pentito ha anche raccontato che Riina teneva documenti riservati in alcune casseforti nei covi in cui si nascondeva. “Temevamo che l’ultimo nascondiglio fosse perquisito, invece, questo non avveniva e non capivamo perché”, ha detto. Sempre secondo quanto ritiene la Procura, la mancata perquisizione sarebbe stata oggetto dell’accordo stretto coi carabinieri da Provenzano, che voleva “proteggere” i documenti di Riina. Brusca ha raccontato come i familiari del boss vennero portati via dal nascondiglio di via Bernini. Il collaboratore ha riferito che il covo venne ripulito, alcune cose furono bruciate dagli uomini d’onore, altre, come l’argenteria, le diedero allo stesso Brusca. “Con Bagarella – ha aggiunto – commentammo anche la perquisizione di cui sapemmo in tv fatta in una casa che non era di Riina. Dicemmo: ‘ma perché fanno questa buffonata’?”.

IL PAPELLO
“Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone, Totò Riina mi disse ‘si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Secondo il pentito, Riina, dunque, gli avrebbe fatto capire che alcuni esponenti delle istituzioni, dopo gli omicidi dell’eurodeputato Salvo Lima e del giudice Giovanni Falcone, avrebbero chiesto al padrino di Corleone in cambio di cosa avrebbe fermato la stagione delle stragi. E Riina avrebbe risposto consegnando il papello, il documento con le richieste di Cosa nostra allo Stato. “Parlando della strategia stragista – ha aggiunto – Bagarella mi disse di andare avanti. Provenzano era perplesso e chiese come l’avrebbe giustificato con gli altri. Bagarella provocatoriamente rispose: ‘ti metti un cartello con scritto: non so niente'”.

UNA VITA IN COSA NOSTRA
Brusca ha raccontato la sua vita in Cosa nostra. “Da adolescente portavo i viveri al latitante Leoluca Bagarella, poi la mia partecipazione in Cosa nostra è stato sempre un crescendo. Sono stato affiliato formalmente nel ’75 prima dell’omicidio del colonnello Russo al quale ho partecipato. La mia ‘combinazione’ ha seguito le regole tradizionali del rito dell’affiliazione: hanno bruciato la santina, Riina mi ha punto il dito. Lui era il mio padrino. Mi hanno insegnato che prima veniva Cosa nostra, poi il resto. Io questa regola l’ho seguita”.

“DEVONO MORIRE TUTTI”
Nel racconto di Brusca anche la guerra ingaggaiata da Riina contro gli uomini politici del tempo. “Nel corso di una riunione, nel ’91,
Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse ‘gli dobbiamo rompere le corna’. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. Mentre Falcone e Borsellino andavano eliminati in quanto nemici dei clan, secondo Brusca i politici come l’eurodeputato Salvo Lima e l’ex ministro Calogero Mannino, dovevano pagare il non avere fatto gli interessi di Cosa nostra. “Mannino, ad esempio – ha detto – doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”.

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“Si parlò anche di Andreotti – ha spiegato – ma non nel senso di ammazzarlo, bensì di non farlo diventare presidente della Repubblica. Politicamente c’era tutta la volontà di metterlo in difficoltà”. “Per l’eliminazione di Martelli, invece, che era concreta – ha proseguito – facemmo dei piani veri. Mandai degli uomini a studiarne le mosse”. Brusca ha negato che si fosse mai parlato, invece, della volontà di ammazzare l’ex ministro Dc Vincenzo Scotti. “La priorità degli omicidi – ha spiegato – la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima”.

“PERCHE’ HO DECISO DI PARLARE”
“Decisi di dire
anche quel che avevo fino ad allora taciuto dopo un incontro con la sorella del giudice Borsellino, Rita, che mi chiese di sapere tutta la verità sulla morte di suo fratello”. Lo ha rivelato il pentito Giovanni Brusca che sta deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia raccontando cosa lo indusse a fare, anni dopo l’avvio della collaborazione, il nome di Marcello Dell’Utri. Il collaboratore ha infatti raccontato solo in un secondo momento del tentativo di contattare Dell’Utri tramite il boss Vittorio Mangano per ottenere benefici per i detenuti. Brusca sta rispondendo alle domande dell’aggiunto Vittorio Teresi che ha ripercorso la travagliate fasi della collaborazioni dell’ex capomafia e la recente indagine per estorsione aperta a suo carico. Brusca si è ripetutamente commosso parlando delle sue conversazioni con la sorella del magistrato assassinato.

CAPACI E L’ELEZIONE DEL CAPO DELLO STATO
“La strage di Capaci
fu accelerata per influire sulla nomina del presidente della Repubblica”. Lo ha rivelato il pentito Giovanni Brusca deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia in corso nell’aula bunker di Milano. Brusca ha raccontato che il commando inizialmente investito dell’incarico di uccidere Falcone avrebbe dovuto agire quando il giudice era a Roma, “poi – ha aggiunto – vedendo che perdevano tempo si rivolse a me e diede a me il compito”. “Riina e Provenzano avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità. – ha aggiunto – Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: ‘io lo devo uccidere qua’”. “Riina voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato – ha spiegato – infatti mi disse di impiegare 1000 chili di esplosivo”.

(Fonte ANSA)

 

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11 Dicembre 2013, 12:00

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