11 Luglio 2010, 01:16
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di VITTORIO ZUCCONI (Da “La Repubblica) Qualche cosa di straordinario accadrà oggi nella casa della morte: spunterà un piccolo fiore di vita. Ci sarà un matrimonio ai piedi del patibolo, per sigillare un amore senza futuro. E ci sarà un viaggio di nozze verso l’eternità: Joe O’ Dell e Lori Urs, la donna che da anni lo visita in carcere fingendo di essere sua moglie, si sposeranno poco dopo mezzogiorno, le nostre 18, in carcere, accanto alla saletta dove questa notte, nove ore dopo il matrimonio, Joe sarà ucciso. Avevano fatto domanda formale ieri alla direzione del carcere che subito aveva sollevato ogni sorta di ostacolo burocratico, richiesta di certificati, conferme legali del divorzio di Lori che è già stata sposata. Poi la pietà, forse il timore di sembrare efferati, hanno vinto: se i documenti necessari arriveranno entro la mattina potranno sposarsi. Li sposerà il cappellano del carcere con rito cattolico, come sono entrambi per nascita.
Sui loro documenti sarà scritto: Lori Urs coniugata O’ Dell il 23 luglio 1997. E rimasta vedova lo stesso giorno. Lui sarà in elegante completo arancione vivo, il colore della tuta dei morituri. Lei in tailleur beige, con un mazzolino di fiori in mano. Per potersi sposare, Lori sta correndo da ieri mattina inseguendo i documenti necessari per completare le pratiche richieste dal direttore del carcere. L’ appuntamento col cappellano per la cerimonia era stato fissato alle 9 di questa mattina, ma ieri sera mancava ancora un timbro e la cerimonia è stata spostata a mezzogiorno. Ma Lori ha dovuto fare molto di più: ha dovuto rinunciare a una fortuna, ai 200.000 dollari – 350 milioni l’anno – di alimenti che il ricco primo marito le doveva passare. Si baceranno, ma non avranno tempo da soli: ai condannati a morte sono proibite le visite coniugali e su di lui sono comunque sempre gli occhi dei secondini. E quando ascolteranno la vecchia frase del rito, ormai logorata dalle leggi e dai costumi, per loro quelle parole acquisteranno un senso perfetto e sconsolante: “… finché morte non vi separi…”. Fino alle 21 di questa sera, dunque, my love. Ora potete baciare la sposa e uccidere lo sposo. Ma un fiore buttato tra gli ingranaggi dell’ assassinio legalizzato non può certo fermare la macchina.
Le ruote continuano a girare tranquille, oliate dalla pratica e dalla voglia di usarla, divorando il tempo che rimane. Mentre Lori correva ieri tra il suo motel e il carcere per fare le pratiche, ieri pomeriggio sui gradini dell’ingresso ha incrociato il medico legale che era appena stato in cella da Joe per un’ ultima, desolante necessità: la ricerca della vena buona e più succosa nel suo braccio, dove infilare questa sera l’ ago. Erano le 15. D-time meno 30, l’ ora della morte meno trenta ore, quando la donna e il medico si sono incrociati all’ ingresso, scambiandosi un breve sguardo. “Meglio il braccio sinistro, dottore”, aveva consigliato Joe al medico che gli palpeggiava gli avambracci. Quando gli ho chiesto dettagli fuori dal carcere mi ha detto brusco: io sono un medico e non parlo. Un medico, dottore? Il medico tace.
Tacciono i tribunali che hanno respinto le ultime manovre degli avvocati: gli resta soltanto il fax estremo trasmesso alla Corte Suprema degli Stati Uniti che certamente la Corte respingerà. Tace il governatore e nel suo silenzio qualcuno vuol leggere a tutti i costi un buon segno, o almeno un segno di imbarazzo. Allen non ha ancora formalmente ordinato di procedere con l’esecuzione come la legge gli impone, perché non può cavarsela col “silenzio assenso”. Prima delle 21 americane dovrà dire di sì, procedete, uccidetelo o, forse, fermatevi. E in questa direzione si sta muovendo la macchina, avanzando ingorda, sicura del suo boccone finale, verso una morte che a questo punto forse è davvero riposo. “Joe si sta rassegnando alla fine. Joe sta facendo pace con se stesso”. Me lo dice il suo amico e avvocato, William Wright che lo incontra tutti i giorni per un’ ora e sarà con lui anche oggi pomeriggio fino al momento di condurlo verso la saletta dell’ esecuzione. Ceniamo insieme in una bettolina di campagna, in un paesetto chiamato Emporia nella Virginia meridionale rustica a pochi minuti dal penitenziario e mai cena mi è stata più indigesta. Come sta, gli chiedo? “Sta col dolore di dover morire adesso che aveva sentito finalmente per la prima volta nella sua vita il calore di tanta gente, di voi, del Papa… vuoi parlargli ancora?” mi chiede, armeggiando col telefonino. No, grazie, ora basta. Quel che si poteva fare – così poco – abbiamo fatto. Arriva il giorno nel quale il giornalismo finisce e deve cominciare il rispetto per chi muore. Se questo è il suo destino, lasciamolo morire con la sua donna, con la moglie di una vita intera durata nove ore.
Ma la macchina dell’ assassinio formalizzato non ha invece pudori. E non li vuole avere, proprio per rendere quanto più atroce possibile la fine e quindi squisita la vendetta legale. I dettagli dei preparativi sono la parte più oscena, più rivoltante. L’ orologio che scandisce gli ultimi secondi del morituro, appeso al muro della sala dell’ esecuzione, è stato scelto deliberatamente rumoroso, perché il tic toc sonoro dia al condannato il senso fisico della vita che gli sgocciola via. Joe lo sente dalla sua cella, che sta in mezzo fra due costruite nel blocco L, la casa della morte. Quando arriva un visitatore, i secondini gli fanno indossare la tuta arancione, quella che userà stamattina per sposarsi, ma nella cella lo costringono invece a restare in mutande e canottiera. Così, per umiliarlo, per rabbrividire nell’ aria condizionata, fingendo che esistano ragioni di sicurezza. Davanti alle sbarre della sua cella, passano e ripassano in queste ore i monatti della goon squad, la squadra addetta alla morte, come la chiamano i carcerati, che l’ osservano minuto per minuto e ripetono davanti a lui la cerimonia della morte.
E’ un allenamento minuzioso, scrupoloso, studiato per dare meccanicità e abitudine ai gesti e togliere a chi li deve compiere ogni senso di orrore e di vergogna. Un monatto porta fuori dal magazzino la barella a ruote, tintinnante, sulla quale Joe verrà sdraiato stasera e la fa rotolare fragorosamente davanti alla sua cella, nel corridoio che porta alla camera della morte. Altri due provano e riprovano a stringere larghe cinghie di cuoio che lo fisseranno alla barella, simulando con cuscini imbottiti il corpo del morituro. I “tecnici”, quelli incaricati di infilare l’ ago della flebo nel braccio sinistro, che non sono medici né infermieri – l’ ordine dei medici americani ha imposto il divieto alla somministrazione della morte da parte di personale sanitario – si muovono in quattro. Troppi per quel lavoro, ma anche in questo caso il numero è studiato per suddividere e sminuzzare la responsabilità.
Joe sta ascoltando tutto, sta vedendo tutto. Non dorme da sabato notte, quando fu trasportato qui. Ma non può chiedere sedativi o sonniferi perché in questo Stato il regolamento lo vieta: il condannato deve morire perfettamente lucido, senza stampelle chimiche. Alle 18, avrà la sua ultima cena, se ne avrà voglia. Dovrà scegliere tra le porcate offerte dalla cucina del carcere. Niente menù da ristorante. Alle 19 vedrà ancora i suoi avvocati per un’ ultima, inutile revisione dei passi finali: a quell’ ora, mentre l’ orologione batterà gli ultimi 120 minuti della sua vita, se il governatore Allen non è un sadico si saprà da tempo se ha dato semaforo verde all’ esecuzione o l’ ha fermata. Alle 20 entrerà il cappellano, per le preghiere della morte. Alle 20,30 sarà accompagnato fuori dalla cella lungo il breve corridoio che conduce alla sala dell’ esecuzione. Sono dieci passi. Gli ultimi dieci passi della sua vita, il suo viaggio di nozze. Ore 20,45: davanti al lettino gli verrà chiesto se ha qualcosa da dire, conoscendo Joe, dirà sicuramente qualcosa. Poi i goons, i boia, chiuderanno la tenda che copre la vetrata sulla stanza dei testimoni.
Neppure la loro lista è conosciuta per certo, il portavoce del carcere, notoriamente un bugiardo, passa varie cifre. Dice che ci dovrebbero essere quattro rappresentanti dello Stato, cinque giornalisti locali sorteggiati un mese fa, suor Ellen Prejean e il fratello della vittima, della donna che lui è accusato di aver ucciso, Robert Capps. Undici in tutto, ma ora si potrebbe aggiungere anche la moglie, Lori. Nascosto alla loro vista, Joe verrà fatto sdraiare. Legato, le caviglie fissate da cinghie, il braccio agganciato al supporto rigido. Un “tecnico”, vestito di un camice bianco per fare scena, cercherà la vena che il medico ha palpato e misurato ieri, gli infilerà il grosso ago collegato al tubo che conduce attraverso un buco aperto in un paravento provvisorio di cartone compensato alla macchinetta della morte. Alla siringa con i liquidi letali. Alle 21, se il telefono appeso alla parete collegato con lo studio del governatore non avrà suonato, il direttore esecutivo del carcere Garretty darà l’ ordine.
Il primo liquido entrerà in vena e Joe perderà conoscenza, prima ancora di ricevere il secondo, il curaro che gli paralizzerà cuore e polmoni. A quel punto, dopo averlo ripulito di sangue eventualmente schizzato dai goons, nel loro imbranato frugare alla ricerca della vena, la tenda sarà riaperta. In teoria dovrebbero aprirla prima di iniettare la pozione mortale, ma di solito il boia preferisce tardare un po’ e pompare l’ anestetico, per evitare rischi. I testimoni, forse la vedova, vedranno un cadavere dai piedi. Il medico constaterà la fine. Il cadavere sarà trasportato verso un’ ambulanza e trasferito all’ obitorio. Secondo la legge della Virginia chi viene giustiziato in carcere perde ogni diritto anche alla propria salma: il corpo viene regalato a una facoltà di medicina. E qui scoppierà il caso della richiesta di sepoltura a Palermo.
Alle 21,30 sarà tutto finito. E il direttore del carcere, il boia, i secondini, i “tecnici”, gli agenti della polizia in stivaloni di cuoio che avranno circondato il penitenziario per togliere a chiunque ogni idea di rivolta, faranno festa. Dopo ogni esecuzione, il direttore offre un rinfresco per congratulare tutti d’ un lavoro ben fatto: stasera sarà torta, gelato e gazzosa bevuta in bicchieri di carta. Alla tua salute, Joe. E buon viaggio di nozze verso l’ eternità.
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11 Luglio 2010, 01:16