Campagna, la madrina dei Cappello |Il ruolo delle donne nella mafia

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11 Febbraio 2017, 06:22

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CATANIA – Da mogli remissive a donne d’onore. Così le figure femminili scalano i gradini che le portano ai vertici dei clan. Blitz e arresti trasformano gli organigrammi delle cupole e i riflettori si accendono sulle figure femminili che prendono le redini delle organizzazioni. Maria Rosaria Campagna è solo l’ultima delle donne balzate agli onori della cronaca per il protagonismo giocato nella partita malavitosa nel ruolo di “cerniera” tra il marito, recluso al 41 bis, e il mondo esterno. La moglie di Turi Cappello, secondo gli inquirenti, avrebbe ricoperto un compito “importante” all’interno dell’organizzazione. L’operazione “Penelope” squarcia così il velo dell’invisibilità femminile e ci consegna l’immagine di una donna “autorevole”, distante anni luce da una potenziale reclusione in un gineceo malavitoso, regista di operazioni di “mediazione” per dirimere delle controversie “con i calabresi”.

Per capire l’evoluzione del ruolo delle madrine è essenziale recuperare uno sguardo di genere sulla trasformazione dei rapporti sociali e rispolverare un po’ di storia. “Nella mafia c’è un connubio tra il concetto di famiglia e quello di presenza pubblica e controllo del territorio. Normalmente la famiglia è un ambito in cui le donne hanno una visibilità, invece in questo contesto, è tutto coniugato al maschile. Però le donne ci sono sempre state dentro l’organizzazione mafiosa e hanno operato spesso da tramite”, spiega la docente di Storia Moderna, Simona Laudani, in una lunga intervista sul mensile S in edicola. Inevitabilmente centrale diventa il ruolo giocato all’interno del nucleo famigliare. “Attraverso i matrimoni le donne sono state le garanti di alleanze tra clan diversi, elementi di consolidamento di questi legami e sono state spesso quelle che hanno trasmesso e controllato dall’interno la solidità delle famiglie e dei clan e soprattutto, come avviene in generale nella società, sono diventate le garanti nei momenti di supplenza”, argomenta Laudani.

La professoressa Simona Laudani

Il protagonismo diventa manifesto nei momenti di supplenza come in guerra. Gli uomini vanno in trincea, le donne entrano nelle fabbriche. Lo stesso avviene quando il congiunto entra in carcere. “Penso alle donne nelle corporazioni di arte e mestieri o nelle famiglie nobili in cui svolgevano un ruolo fondamentale, sia come cerniere o garanti delle alleanze sia come elementi di continuità nei momenti di vedovanza o supplenza”, dice la docente. “Succede che queste donne, come avviene in tutti i contesti patriarcali, prendono visibilità nei momenti di difficoltà di visibilità degli uomini, come nel mondo del lavoro durante le guerre così nelle organizzazioni mafiose quando gli uomini finiscono incarcerati. Man mano che la lotta alle mafie ha avuto più successo si sono creati dei veri e propri buchi di potere che sono stati immediatamente ricoperti dalle donne” .

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LEGGI L’INTERVISTA COMPLETA SUL MENSILE S IN EDICOLA

 

 

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11 Febbraio 2017, 06:22

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