Candidati e condannati: Falcone e Borsellino sono morti di mafia

Candidati e condannati: Falcone e Borsellino sono morti di mafia

La polemica e gli interventi. Le riflessioni e le fazioni. Ma quel dolore non passerà mai.

Il dolore invincibile per i nostri cari martiri cominciò in quell’estate del ‘92. C’erano stati altri morti ammazzati dalla mafia, persone perbene e coraggiose, che mai più avrebbero guardato negli occhi coloro che amavano. Ma l’anno che vide il sacrificio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Rocco Dicillo, di Antonio Montinaro, di Vito Schifani, di Paolo Borsellino, di Agostino Catalano, di Walter Eddie Cosina, di Vincenzo Li Muli, di Emanuela Loi, di Claudio Traina fu il superamento emotivo e collettivo di un confine. Come quando uno perde i genitori, da giovane, e la vita cambia per sempre: un sentimento totale della separazione condiviso da più generazioni. Tutti sapevano che rischiavano di essere uccisi e, nonostante tutti e tutto, non furono salvati.

L’esistenza che si sviluppa, dopo una simile catastrofe, nell’esperienza di chi l’ha sperimentata, nella narrazione che si tramanda a chi non c’era, ne risulta fatalmente condizionata. Avevamo vent’anni, trent’anni, settant’anni, dieci anni, non eravamo ancora nati… Da trent’anni a questa parte nessun siciliano sfugge all’onda immensa del lutto. I cerchi concentrici di un sasso lanciato nell’acqua dei giorni di ognuno non termineranno mai.

Il dolore invincibile da cui sorse una diversa coscienza è l’elemento essenziale da tenere presente oggi – e dovrebbe esserlo sempre – anche nella discussione sul rapporto tra condannati per contiguità con Cosa nostra e politica. Quando si pronuncia la parola ‘mafia’, alle nostre orecchie, è come dire ‘Auschwitz’ davanti a chi ha una storia di consuetudine familiare, da vittima, con gli orrori del nazismo.

Ogni siciliano si ribella, perché ha un conto aperto con la mafia e sente, naturalmente, crescere una insurrezione morale. Parliamo dei siciliani buonissimi, che non trafficano con la vacua retorica di certa antimafia, quando l’antimafia non è soltanto, purtroppo – come nella stragrande maggioranza dei casi è – nobiltà di impegno disinteressato.

Siciliani buonissimi come Alfredo Morvillo e Maria Falcone, capaci di affermazioni nette che hanno attirato, sul principio, il consenso di tanti altri. Poi, c’è l’ovvia polemica politica, non aliena all’interesse elettorale, che, nella rivendicazione dei valori, non riesce a liberarsi da uno spirito di fazione almeno sospetto.

E c’è da annotare la puntuale riflessione di un altro siciliano buonissimo, il professore Giovanni Fiandaca, in grado di fornire, dalle nostre pagine, una lucida lezione di diritto nel senso della civiltà giuridica più attenta.

Da dove ripartire allora? Proprio dal sentimento consapevole che ci colse nell’estate del ‘92, da quel dolore invincibile. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti di mafia, non per un incidente stradale o per una malattia. Per colpa della mafia non hanno avuto un giorno in più di una vita ricolma d’amore, generosità e spirito di servizio. Questo nessuno potrà mai dimenticarlo.


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